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Europa, salvaci tu
 
di Alessandro Risso
 

“L’operazione Europa non è finita. Il paziente è ancora vivo”. Antonio Abate, docente di economia al Politecnico, ha tranquillizzato con queste parole il pubblico presente alla serata di approfondimento sull’Unione Europea, stretta tra i parametri di Maastricht e la dura crisi dell’economia reale. Una crisi i cui contorni sono definiti da numeri eloquenti.
Se tra il 1995 e il 2011 il PIL mondiale è cresciuto dell’80%, in gran parte per merito del cosiddetto BRIC (Brasile, India, Cina), l’area dell’euro non è andata male, avendo fatto registrare un incremento del 31%, con la Germania al 25% e l’Italia al 15%.
Ma dallo scoppio della crisi, nel 2008, ad oggi, il PIL mondiale è cresciuto solo del 15%, e i Paesi occidentali di un misero 2%: in dettaglio, gli USA hanno un più 2,9 e la zona euro un meno 1,3%; dove però la Germania ha + 3,5 e l’Italia – 7%. Ecco il problema: “Il nostro Paese avrebbe dovuto prendere provvedimenti tra il 2000 e il 2006, quando l’economia era in crescita e avrebbe potuto assorbire le misure di contenimento del debito e di correzione dei conti, ad esempio sulle pensioni” ha detto il professor Abate. Ma in quegli anni il governo (Berlusconi) non si è invece fatto scrupoli nell’aumentare allegramente il debito pubblico.
In ogni caso oggi, nel pieno della crisi, l’Italia da sola non può farcela. “Ci vorrebbe più Europa, e ce n’è troppo poca. Manca una politica di bilancio unificata. La Germania non vuole gli eurobond fino a quando non potrà avere il controllo sulle spese degli altri Stati, e la voce della Francia è debole perché la sua economia non riesce a tenere il passo dei tedeschi. Mancando la politica, rimangono solo i parametri numerici che, come ha detto Romano Prodi, sono stupidi”.
Ma almeno rimarrà in piedi il sistema dell’euro? “Premesso che la moneta unica ha portato grandi benefici – ad esempio ha azzerato i consistenti costi di transazione delle 17 monete dei singoli Paesi – dobbiamo considerare che la Germania ha un’esposizione di 750 miliardi di euro sui Paesi mediterranei. Per deboli che siano Portogallo e Grecia, senza parlare di economie ben maggiori come Italia e Spagna, i tedeschi non possono permettersi la loro fuoriuscita dal sistema. Di fatto non esiste una exit-strategy dall’euro. Neppure la Germania stessa può decidere di andarsene, perche i suoi crediti svaluterebbero comunque moltissimo”.
Ma nell’Unione bisognerebbe starci per convinzione, non per forza. E un convinto federalista europeo come Oreste Calliano, docente di diritto dell’UE a Economia, ha lamentato come si sia interrotto il processo interrotto di integrazione. “Le elezioni europee continuano ad essere su base nazionale, e l’allargamento verso est è stato un dramma: i tedeschi e Prodi hanno pensato al grande mercato che ne sarebbe derivato, ma non c’erano le condizioni istituzionali, dato che mancava la Costituzione europea, rimasta ancora oggi al palo. E poi si è mantenuto il diritto di veto di ogni Paese membro, evitando che il diritto europeo prevalesse sul diritto nazionale”. Abbiamo quindi un’Europa debole, surclassata dagli interessi nazionali. Paradossalmente la crisi economica di questi anni può rivelarsi positiva “perché richiede interventi sovrannazionali, e quindi europei, contro la disoccupazione, per le politiche di sviluppo e di risanamento ambientale”.
Calliano ha ricordato che servirebbe anche recuperare il senso dei “beni comuni” e dei diritti dei consumatori, non più da considerare secondari rispetto alla politica della concorrenza. Ma soprattutto occorre tornare ai princìpi dei grandi europeisti, come Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi: “Lo statista trentino, un politico pragmatico, quando ricevette il premio Carlo Magno, affermò che le istituzioni nazionali sarebbero monche senza una mentalità europea”.
Dopo l’analisi iniziale, i due relatori sono poi stati richiesti di un parere sul che fare in Italia per superare la crisi, anche ricorrendo all’Europa.
Abate ha ricordato che la nostra economia ha perso il 25% di produzione industriale, tornando ai livelli del 1999. Siamo arretrati di 13 anni, ed è poca consolazione sapere che restiamo la terza economia del continente. La chiave della ripresa è la manifattura, che tiene se è competitiva: “E questo dipende anche dagli imprenditori, che in Italia hanno luci e tante ombre: con industrie piccole, senza possibilità di economie di scala, e sempre tentati da scorciatoie come elusione ed evasione fiscale”. Nelle politiche pubbliche occorre invece investire in energia: “La Germania ha investito più di tutti nelle rinnovabili. In Italia ci sono impianti eolici neppure connessi alla rete elettrica”. Sarebbe bene cedere sovranità verso l’Europa, ma l’euroscetticismo diffuso è un freno potente. Meglio pensare a cosa possiamo fare in Italia: “Non c’è una soluzione salvifica e immediata, ma consiglierei al presidente Letta di ridurre il cuneo fiscale e di effettuare investimenti nella ricerca invece di preoccuparsi dell’IMU”, ha concluso Abate.
Di scelte sbagliate i governi italiani ne hanno già fatte tante. Il professor Calliano ne ha sottolineate quattro in particolare. Per prima la sciagurata sentenza della Corte Costituzionale nel 1985 sull’equiparazione del trattamento pensionistico degli alti magistrati a tutti i dirigenti del comparto pubblico più i docenti universitari. “Non ci si chiese allora se ciò era compatibile con le finanze pubbliche, e questa sola decisione provocò un buco di bilancio di 50.000 miliardi di lire”. Secondo errore, aver introdotto l’euro senza predisporre meccanismi di monitoraggio dei prezzi, che sono di fatto raddoppiati: “In Germania si mise in piedi un sistema di controllo insieme ai consumatori. In Italia ognuno ha fatto come ha voluto”. Terzo grave problema, la perdita di credibilità internazionale del nostro Paese: “Pochi ricordano che Berlusconi pose il veto in sede UE per bloccare l’istituzione del mandato di cattura europeo”. Ultimo errore, l’illusione tecnocratica, “pensare cioè che i problemi della nostra economia potessero venire risolti da Monti con qualche altro tecnico bravo nelle politiche di bilancio”.
Che fare allora? “Investire in istruzione, ricerca, infrastrutture. E poi nei beni culturali e nel turismo: dobbiamo diventare la Florida dell’Europa, all’avanguardia nei servizi alla persona. Infine bisogna investire sulla banda larga, una scelta keynesiana, che guarda al futuro. Ma dobbiamo anche renderci conto che noi Italiani siamo stati capaci a inventare il PC e solo cinque anni dopo abbiamo chiuso il Centro Ricerche Olivetti”.
Con simili relatori, non sono mancate le domande del pubblico, che hanno spaziato dallo scarso spirito europeista dei tedeschi, e della Merkel in particolare, ai tentativi della finanza statunitense di far saltare i punti deboli della zona euro, dalla poca capacità del nostro Paese di attrarre investimenti all’ineluttabilità della recessione. Dalle risposte mi limito a trarre due passaggi conclusivi, e certamente non confortanti, di questo ampio resoconto della serata – tanto più necessario quanto più è limitata, purtroppo, la partecipazione di persona –.
Di Antonio Abate una sentenza lapidaria, parlando del continuo aumento del debito pubblico: “Senza una stabilità dei conti, non ci può essere alcuna crescita”. Di Oreste Calliano un’osservazione tanto vera quanto inquietante: “In questi ultimi anni le famiglie, grazie ai risparmi e alle pensioni dei nonni, sono state un grande ammortizzatore sociale. Ma cominciano a perdersi. Tutti gli investimenti auspicabili avranno effetto a medio-lungo termine. Nel frattempo prepariamoci a contare morti e feriti”.


giuseppe cicoria - 2013-07-18
L'incontro è stato veramente interessante e mi auguro ne vengano altri dove tutte le miserie italiane ed europee siano date per dette mille volte e, quindi, scontate. Da coloro che hanno dedicato la loro vita allo studio della politica economica gradirei ascoltare, con maggiori dettagli, quali sono alcuni provvedimenti seri ed immediati tali da accendere il ciclo virtuoso della ripresa economica dell'Italia. Non mi sembra sufficiente l'indicazione troppo schematica finora ottenuta. Credo, intanto che non bisogna aver paura di raccogliere qualche interessante stimolo al VERO cambiamento. Se i partiti a cui la nostra associazione è affine si limitano a dire ma dimostrano tenacemente di essere conservatori nei loro vizi e privilegi allora non si ha speranza. Vediamo che una delle nostre promesse politiche si è alleato con un partito il cui capo è il principale responsabile della propensione all'evasione degli italiani e al disprezzo di qualsiasi senso morale ed etico. Con questi alleati noi siamo costretti a convivere anche se il primo obiettivo è non fare niente che serve all'Italia ma fare tutto quello che conviene ad alcune persone e ad una in particolare. Il risultato è che tutti i soldi che sono stati sottratti agli italiani con patrimoniali illegali e tasse sono finiti nel vecchio calderone delle ruberie, degli sprechi abnormi, e delle corruzioni. Nessun risparmio delle spese folli, ingoiate da istituzioni create per il bene pubblico ma rivelatesi inutili o addirittura dannose per al collettività, è stato portato a termine. Quei soldi potevano essere messi nel circuito virtuoso dell'ammodernamento della nostra Italia con creazione di posti veri di lavoro e progressiva eliminazione dei posti inutili dedicati alla burocrazia. Ora ci stiamo mangiando anche le nostre ricchezze. Pensate un pò: si tassa il valore delle case. Il pagamento avviene, però con un reddito. Se il reddito che deriva dalle case viene a mancare a causa della recessione, non si sa come pagare. Si deve vendere ma non c'è il compratore. Fine della partita. Si tassa il valore ad una certa data dei titoli ma il prelievo avviene sui c/c. Se i titoli riguardano aziende in crisi che non danno reddito come si fa a pagare? E' chiaro che questi provvedimenti non possono durare se il sacrificio imposto non è indirizzato contestualmente alla creazione di altra ricchezza. Se il nostro partito principale di riferimento è il PD bisogna che i nostri rappresentanti cambino totalmente visione della gestione del partito. Bisogna veramente mandare a casa i conservatori che attualmente gestiscono questo castello enorme di potere che si è annidato, come una metastasi, in tutti gangli della nostra società. I vecchi ideali sono diventati come i dieci comandamenti che tutti i cattolici dovrebbero rispettare ma che tutti violano tanto c'è il perdono! L'allineamento con gli altri partiti è inesorabilmente avvenuto!
franco maletti - 2013-07-15
L'Europa, per salvarsi dal proprio declino, ha urgente bisogno di un Progetto comune realizzabile soltanto attraverso la progressiva rinuncia di ciascuno Stato a parte della propria sovranità nazionale. Rendendo omogenee e non concorrenziali le normative in tema di costo del lavoro, di fiscalità, di strutture assistenziali e per la sicurezza, di welfare. Se, al contrario, ciascuno Stato prosegue nella logica del "mors tua vita mea", allora sarà la morte della stessa idea di Europa.
Giuseppe Ladetto - 2013-07-10
In Italia, ci dicono i media, si riscontra un diffuso sentimento “antieuropeo” che attribuisce alle direttive del vertice comunitario tutti i mali del paese. In realtà, a provocare disaffezione per il cammino europeo credo che soprattutto ci sia una forte delusione per gli esiti a cui è approdato. L’Unione Europea che ci propone il vertice comunitario è un strano oggetto (che sembra avere ben poco di comune con il progetto originario di De Gasperi, Schuman ed Adenauer): non ha definito e motivato i propri confini, poiché, ad esempio, ci può entrare la Turchia se si comporta bene in tema di diritti, ma non la Russia che è parte del nostro continente e che ha dato un contributo significativo all’edificazione del patrimonio culturale europeo (musica, letteratura, arte figurativa); rifiuta le sue radici e non solo quella cristiana; non ha una identità perché non riconosce le realtà storico-valoriali, anzi le considera inutili zavorre; non ha un progetto politico, un’idea di futuro, perché pone l’economia, la concorrenza e il mercato sopra ogni cosa; non si presenta sulla scena internazionale con una comune volontà, né ha creato un proprio esercito, perché privilegia l’Occidente e la Nato rispetto alla difesa dei propri interessi. Oggi, inoltre, il ceto politico espresso dall’Europa comunitaria sembra essere diventato il principale interprete e portavoce del “politicamente corretto”, lo strumento grazie al quale si tenta di imporre il pensiero unico e di giustificare crescenti limitazioni alla libertà di parola a chi non si riconosce in esso. Su l’Avvenire del 7 maggio scorso, Francesco D’Agostino ha rilevato la necessità di tenere ben distinti il concetto di Stato e quello di Nazione. Lo Stato è una struttura politica, la Nazione una realtà storico-valoriale. Oggi, per il principio di laicità, le strutture dello Stato non possono identificarsi con strutture non politiche: (nazione, religione, lingua, cultura ecc.), ma la laicità politica dello Stato non significa indifferenza od ostilità nei confronti di identità di carattere nazionale, religioso, linguistico, ecc. Lo Stato, ci dice l’editorialista, ha bisogno di queste strutture meta-politiche, perché da esse può assorbire dimensioni valoriali che da solo non è in grado di elaborare. Invece tutta l’attuale dominante ideologia neoilluministica, in cui si riconosce il ceto politico e tecnocratico espresso dall’Europa comunitaria, nega il valore di queste strutture meta-politiche e proclama il carattere negativo delle eredità di carattere storico-valoriale, viste come vincoli costrittivi di cui bisogna sbarazzarsi per emanciparsi ed essere liberi. Emblematiche in questo senso sono le recenti dichiarazioni di Vincent Peillon, nuovo ministro della pubblica istruzione francese: “Per dare libertà di scelta, bisogna essere capaci di strappare l’alunno a tutti i determinismi, familiare, etnico, sociale, intellettuale”. Ma una società fatta di individui privi di appartenenza, di memoria, di riferimenti normativi e culturali condivisi, diventa un semplice e labile aggregato di singoli sradicati, interscambiabili, incapaci di sottrarsi ai condizionamenti del mercato che impone consumi, comportamenti e pseudo valori (le mode, il nuovo in quanto tale). Gli esseri umani privi di legami e di appartenenze diventano preda del conformismo di massa, terreno fertile per nuovi totalitarismi. Un’Europa che voglia realizzare una integrazione politica fondata esclusivamente su una carta dei “diritti” e su un “patriottismo costituzionale”, rifiutando tutti gli altri elementi identitari, è inevitabilmente destinata al fallimento. E’ invece necessaria una forte identità europea fondata sulla tradizione storica e culturale, senza la quale non è possibile un confronto aperto e costruttivo con le altre culture di un mondo sempre più interdipendente. In assenza di una forte identità, prevale il timore verso ciò che è altro, con le conseguenti chiusure che si evidenziano anche nella mancanza di voglia di futuro, avvertito come minaccioso e come un limite del presente. La denatalità che affligge il nostro continente è la più evidente manifestazione di questa sfiducia nel futuro e nel contempo è la causa prima della decadenza europea, anche sul piano economico.
Giovanni - 2013-07-10
Bravo Alessandro, buona l'analisi ma cruda la sintesi di chiusura. Ciao Giovanni