Non c’è dubbio che Giulio Andreotti, principale esponente del moderatismo DC, sia stato un uomo di potere, esercitato talvolta in modo ambiguo e disinvolto. Basti pensare ai suoi rapporti con Gelli o Sindona o ai risvolti giudiziari che hanno segnato gli ultimi anni della sua vita politica.
Però non c'è solo questo e sarebbe riduttivo concentrarsi unicamente su queste vicende, non cogliendo per intero la complessità di uno statista che, come pochi altri, ha davvero attraversato la nostra storia repubblicana.
Parlando di Andreotti dobbiamo peraltro intenderci. Egli, a differenza di altri importanti esponenti della DC, come Moro o Fanfani, non era uomo di grandi disegni ideologici. Privo sia delle grandi intuizioni morotee sia del dinamico attivismo fanfaniano, Andreotti era un pragmatico che considerava l'attività politica come una sorta di navigazione a vista, tra mille ostacoli da schivare. In quest'ottica, le rigidità ideologiche divenivano un impaccio. Cose risapute, come mostra la sua lunga e controversa esperienza politica, per lo più vissuta cercando di tenere insieme, con impareggiabile abilità aspetti tra loro contrastanti.
Eccolo allora nello stesso tempo garante degli equilibri atlantici e sostenitore della causa palestinese; anticomunista fino al midollo ma pronto a trovare un’intesa col PCI di Berlinguer se richiesto dalle necessità politiche. Andreotti è, per molti versi, la quintessenza della politica come è comunemente intesa, con quel tanto di machiavellismo che da sempre la accompagna.
Detto questo, possiamo rintracciare almeno due elementi che hanno fatto da filo conduttore alla sua presenza sulla scena pubblica: l'afflato europeista e una concezione mite della politica.
Mai come oggi, pensando proprio all'europeismo andreottiano, che era poi quello dell'intera DC, si evidenziano limiti e angustie dell'attuale fase politica del vecchio continente. Di fronte al ripiegamento, culturale e forse anche ideale, dell'intera Unione, bisognerebbe ripensare alla lungimiranza con cui si diede vita al progetto della moneta unica, e che vide in Andreotti uno dei massimi fautori nell'idea che la nascita dell’euro potesse essere il primo passo verso l’integrazione politica. Una simile capacità di guardare lontano lo statista DC la mostrò in politica estera, impegnandosi a favore della distensione Est-Ovest e della collaborazione tra le due sponde del Mediterraneo, dedicando la massima attenzione alle vicende mediorientali e, più in generale, ai rapporti con i Paesi in via di sviluppo. Un'ispirazione solidaristica alimentata dal suo universalismo cattolico.
Il secondo punto su cui riflettere è quello di una politica vissuta come confronto e mai come scontro. L'idea cioè che sia sempre necessario farsi carico delle ragioni dell'altro. Una concezione mite della politica in cui la moderazione dei toni rappresenta il metodo, il presupposto mai rinnegato per affrontare proficuamente le grandi e piccole questioni che affollano l'agenda del nostro tempo.
A ben pensarci, è proprio questa logica a essere entrata in crisi nella nostra vita politica, anche a causa di un sistema bipolare mal interpretato e troppo spesso incline alla demonizzazione dell'avversario. Proprio questo risulta essere il tratto saliente della cosiddetta Seconda Repubblica che c’è da augurarsi venga, in qualche modo, superato per i gravi pregiudizi recati alle nostre istituzioni e alla nostra convivenza civile.
Non sappiamo se il governo Letta, il primo dal 1947 che vede insieme ministri di destra e di sinistra, riuscirà a lasciarsi alle spalle questa insensata contrapposizione frontale tra i due schieramenti, che non ha eguali in alcuna democrazia avanzata. Se così fosse, verrebbe, in fondo, messa a frutto proprio una delle più preziose lezioni andreottiane. |