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Il Papa peronista
 
di Franco Campia e Andrea Zambrano
 

Durante un recentissimo soggiorno in Argentina, mi sono imbattuto nelle strade di Buenos Aires nel manifesto a corredo dell'articolo, che mi aveva incuriosito non poco. Così pure avevo ascoltato e letto molte cose sui rapporti del cardinal Bergoglio – eletto Papa proprio nei giorni in cui mi trovavo nel suo Paese – con il mondo politico argentino e con l'attuale "Presidenta" Cristina Kirchner.
Una volta rientrato a Torino, su internet mi sono imbattuto in un articolo di Andrea Zambrano, pubblicato sul sito di “La Nuova Bussola Quotidiana”, in cui ho ritrovato molte delle informazioni là ascoltate. Il taglio può apparire eccessivamente "politicista" ed è un po’ troppo generoso nel trattare della figura di Peron, fortemente idealizzata. Mi pare anche carente sull'influsso gesuitico nella formazione e nella personalità del neo Papa – la cui figura non viene comunque sminuita – ma nel complesso è un articolo di spessore che merita di essere letto. E lo propongo qui di seguito ai lettori di
Rinascita popolare.

Progressista o conservatore? È il rompicapo del momento che coinvolge tutti: giornalisti, commentatori, opinionisti, tuttologi, cattolici dell’apparizione televisiva. Tutti stiamo lì a interrogarci: ma papa Francesco è di sinistra, di centro o di destra? È un tipico nostro vizio occidentale europeo quello di incasellare in bianchi e neri l’umano genere. Ma non sempre funziona. Soprattutto se si parla di un Papa venuto dalla “fine del mondo”.
Dal giorno in cui si è affacciato dalla Loggia delle Benedizioni, è stata una continua rincorsa a cercare di metterlo dentro uno schema rassicurante: «Parla sempre dei poveri, non può che essere di Sinistra». «Infila nelle sue omelie il diavolo. Deve essere per forza un conservatore». «Sta cambiando la liturgia e fa improvvisate da vertigine per stare vicino al popolo: ecco un vero progressista che vuole riformare la Chiesa abolendo le distanze». «No, è un tradizionalista: lo si vede da quello che pensa sui matrimoni omosessuali».
Non c’è che dire: il primo effetto del pontificato di papa Francesco è stato quello di spiazzare l’opinione pubblica, da sempre alla ricerca di una consolante etichetta. Ma le cose non stanno propriamente così.

Tanto di questo Papa non conosciamo. Tanto dobbiamo ancora scoprire, a cominciare dal fatto che non sarà facile applicare dei modelli pronti. Per cercare di fotografare al meglio la personalità, il carattere e il pensiero di Bergoglio, probabilmente dobbiamo soltanto aspettare i primi atti di governo, le prime encicliche, i primi atti forti di un Pontificato che già da ora si preannuncia come diverso.
Già, ma diverso da che cosa? Per capirlo bisogna andare in Argentina. Là, dove Bergoglio è nato, è cresciuto, ha studiato ed è diventato prima sacerdote, poi superiore dei Gesuiti e infine arcivescovo di Buenos Aires. È solo attraverso questo percorso a ritroso, dagli Appennini alle Ande, che possiamo iniziare a comprendere perché il Papa è comunque diverso dai suoi predecessori, ma allo stesso modo uguale nell’obiettivo di fondo: trasmettere come l’incontro con Cristo sia determinante per la vita di tutti gli esseri umani.
C’è un vivace dibattito in Argentina in questi giorni che investe molti esponenti politici: «Bergoglio è un Papa peronista?». Forse in Italia e in Europa, l’accostamento potrebbe sembrare irriverente se non blasfemo, ma per chi conosce le vicende che dal dopoguerra a oggi hanno attraversato il Paese sudamericano, non è un interrogativo né disdicevole, né scandaloso. Ecco perché bisogna partire proprio da qui per comprendere il clima culturale nel quale Bergoglio è vissuto e si è formato come sacerdote.

La figura di Peròn è una pietra di inciampo da sempre in Argentina. Lo dimostra il fatto che quasi tutti i partiti si sono ispirati a lui e al suo movimento “justizialista”. E nel parlare di Bergoglio non si può non iniziare da qui. Dal fatto che, come scriveva Ortega y Gasset, l’“uomo è la sua circostanza”. Dunque anche Bergoglio soprattutto negli anni iniziali della sua vita ha respirato i forti ideali che hanno spinto il generale a essere comunque, nel bene o nel male, un punto di riferimento per partiti che anche oggi portano avanti ideali completamente diversi. Dava ospitalità ai nazisti, ma non era antisemita. Aveva a cuore il destino dei poveri, ma non era spinto da ideologie socialista né marxiste. Aveva al centro del suo programma il popolo, ma per tanti suoi detrattori era un populista.
Personaggio di difficile inquadramento. Promotore di vaste riforme sociali che consentirono all’Argentina di entrare tra i Paesi più influenti dell’America oltre che Eldorado per tanti emigranti europei. Ma anche abile giocatore su più tavoli, dalla Massoneria alla Chiesa, per cercare di tenerli tutti sotto scacco e tutti superarli. Però fautore di quella terza via, che si incuneava tra il capitalismo e il marxismo che oggi, mutatis mutandis, è incarnata nel mito della Patria Grande sudamericana, a cui non è stato insensibile neppure l’allora cardinal Bergoglio. Questi d’altra parte non è un mistero che in gioventù fosse stato un attivista del neonato movimento peronista quando il leader dovette esiliare nella seconda metà degli anni Cinquanta.

Hugo Alconada Mon, giornalista del quotidiano letto da Bergoglio “La Nacion”, ha riportato un episodio significativo. Che risale agli anni dei suoi studi superiori quando, giovane allievo dell’istituto tecnico industriale numero 12, lo troviamo già diverso, adolescente, più compromesso e politicizzato, con quella stagione di ideali e disillusioni, come dimostra la scomunica che Peron si prese da una Chiesa che aveva spesso blandito e valorizzato e molte volte invece tentato di ridurre a cosa sua.
Un giorno, ricordano i suoi compagni dell’epoca, entrò in classe con il distintivo peronista appuntato sulla giacca. L’insegnante lo sgridò perché era proibito portare simboli di partito all’interno delle mura scolastiche. Il giorno dopo Bergoglio esibì lo stesso distintivo e si beccò una sospensione di alcuni giorni. Ragazzate, si dirà. Certo, ma frutto di un clima culturale che in quegli anni investì tutti. E che fece sì che tutti, più o meno costretti da quella che era pur sempre una dittatura, dovettero sorbirsi l’epico pellegrinaggio alla Casa Rosada per omaggiare la salma di Evita, dove milioni di argentini piangevano l’eroina del popolo.
Un episodio, certo, ma significativo per inquadrare il primo problema: non si può comprendere Bergoglio, né il suo essere conservatore in dottrina e progressista nel sociale se non si considera la stagione del peronismo.
Certo, nella formazione del Papa ebbero successivamente influenza i contatti, prima che con i Gesuiti, con i Salesiani, ma è indubbio che di quella terza via tra marxismo e capitalismo qualche cosa è rimasto nella forma mentis del Papa. È questo il motivo per cui ci risulta così difficile inquadrarlo ed è così difficile fare di lui una icona della Teologia della liberazione, che da superiore dei Gesuiti combatté e che in Argentina fece molta fatica a entrare grazie al filtro sociale promosso dal peronismo, che già dava risposte alla popolazione, seppur parziali e strumentali, di giustizia sociale.

Il dibattito in Argentina è più accentuato che in Europa. C’è chi, come Julio Barbaro, militante dell’organizzazione peronista “Guardia de Hierro”, rimarca come Bergoglio sia stato molto vicino a loro negli anni appena precedenti il rientro in patria dal lungo esilio del comandante. Prima dell’avvento dei montoneros, i cosiddetti peronisti di sinistra che misero a ferro e fuoco l’Argentina, la “Guardia” era un’organizzazione di base quasi centrista, che portava avanti il peronismo delle origini. Poi si spostò su posizioni di destra. «Eravamo la non guerriglia e la non violenza», spiega l’ideologo della cosiddetta destra cattolica peronista. Ma negli anni a cavallo tra il ‘66 e il ‘67 quando Bergoglio era direttore spirituale di alcuni giovani cattolici peronisti visse la repressione del governo nei confronti di studenti e insegnanti che va sotto il nome della “notte dei bastoni larghi”: «Fu in quel momento – ha spiegato Barbaro a Radio 10 – che Bergoglio cominciò a simpatizzare per la Guardia de Hierro. Una simpatia che poi il futuro Papa portò avanti fino a quando l’esplodere della violenza di gruppi come i montoneros, costrinsero la Guardia a spostarsi su posizioni nettamente di destra fino a sciogliersi nel 1974, alla vigilia del golpe dei colonnelli. Fu allora che Bergoglio si staccò definitivamente da quella storia.

Ma che cosa resta oggi di quella stagione politica? Qui il dibattito è quanto mai acceso. Vale la pena leggere accademici come Marcelo Gullo, docente di Scienze politiche nella stessa università nella quale prestava servizio il futuro Papa, non può non analizzare alla luce degli scritti di Bergoglio la sua vicinanza al concetto di Patria Grande.
Gullo prende in analisi soprattutto la prefazione al saggio di Guzman Carriquiry Una scommessa per l’America latina, scritto nell’aprile del 2005, nel quale si comprende la geopolitica del futuro Papa. «Il destino dei popoli sudamericani e il destino della cattolicità sono intimamente vincolati», scriveva l’allora Arcivescovo ben sapendo che «il Vecchio Continente vive da tempo come se Dio fosse morto, dove le chiese hanno smesso di essere luoghi di fede per convertirsi in semplici musei o passaggi turistici». Un’Europa dove «si vede un decadente edonismo, venduto provocatoriamente come frutto dell’evoluzione dei tempi». Si tratta di un’analisi dei fallimenti tanto del modello ultraliberista quanto del modello marxista.
Il Papa condannava i due rischi del Sudamerica. Da un lato la globalizzazione per un continente che vanta uno dei primati mondiali in termini di disuguaglianza sociale. Una globalizzazione vista come il «totalitarismo più pericoloso della postmodernità, che annulla l’identità di tutti i popoli» della quale, dal sud del mondo, Bergoglio vede le storture e le frammentazioni a cominciare dalla «condanna dei nostri popoli a essere marginali, impoveriti e dipendenti dai grandi poteri mondiali». È quello che Bergoglio chiama “una delle due facce del colonialismo culturale”.
La seconda è appunto è il “progressismo adolescente”, una sorta di rilettura in chiave marxista dei rapporti tra gli uomini che «si configura come il colonialismo culturale degli imperi e che sfocia nel laicismo militante». Dunque anticristiano. Entrambe queste minacce sono per Bergoglio «insidie antipopolari, antinazionali, antilatinoamericane anche se si presentano sotto la maschera progressista».
Una lettura contestata da certi ambienti della sinistra peronista, oggi rappresentata da Cristina Fernández de Kirchner, la Presidenta, da sempre in rotta con il suo arcivescovo. Questa e il suo entourage di intellettuali, come denunciava nei giorni scorsi il giornale cattolico “Religion en libertad”, stanno cercando di includere il nuovo Papa nel progetto di Patria Grande, intesa però come un piano egemonico dei Paesi sudamericani sotto l’egida di un leader politico come Castro, come Chavez, o come il mito dello stesso Peron. Non ha nulla a che vedere con l’ideale di fraternità e solidarietà che concepirono i libertadores San Martin e Simon Bolivar di cui parla Bergoglio.
Un peronismo che manca del rigore dogmatico dei suoi progenitori, dunque, quello della Presidenta, connotato ideologicamente e politicamente, ma che comunque è riuscito a far passare l’idea di un “Papa Francisco. argentino y peronista”. A modo loro, ovviamente.
La Patria che invece ha in mente Bergoglio assomiglia più alla congerie di valori e sentimenti quali solidarietà, etica civile e umana, amicizia, speranza e giustizia cantate nel poema nazionale Martìn Fierro, che, non a caso, papa Francesco ha riletto in chiave evangelica in occasione della Pasqua 2002.
Come invito a costruire una patria senza messianismi né avidità o brame di potere. Decisamente in contrasto con le ambizioni che la Presidenta ha messo in campo per assicurarsi il nuovo Papa come una etichetta in più da spendere per costruirsi il suo, di mito. L’ennesima, dopo Peròn e gli altri caudilli.