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Fare i conti con il populismo
 
di Giuseppe Ladetto
 

Nei media, il successo del Movimento 5 Stelle è oggetto di commenti e di valutazioni alquanto divergenti: c’è chi lo vede come pura protesta destinata a sgonfiarsi presto; chi come una minaccia per la democrazia; chi come una costola di una sinistra alternativa. In realtà il “grillismo” va ricondotto alla categoria del populismo, un fenomeno in crescita in tutta Europa e non solo. Cerchiamo allora di comprendere cosa sia il populismo attuale.
Yves Mény (direttore del Centro “Robert Schuman” presso l’Istituto universitario europeo di Firenze) ha fornito del populismo una rappresentazione che ne definisce le caratteristiche più tipiche. Queste comprendono la forte avversione rispetto alle élites; l’ostilità nei confronti delle grandi imprese, delle banche e dei circoli finanziari; la svalutazione, in nome della democrazia diretta, della democrazia rappresentativa e del ceto politico professionale che essa richiede; l’insofferenza per le regole procedurali e le mediazioni.
Il populismo si richiama al popolo, rappresentato come un aggregato sociale omogeneo, depositario esclusivo di valori positivi; privilegia la dimensione comunitaria, l’ambito locale e la sussidiarietà (più consoni all’esercizio della democrazia diretta); valuta positivamente le appartenenze culturali e linguistiche e le tradizioni. Come già detto, esso aspira a forme di democrazia diretta, ma talvolta affida l’espressione della propria voce a una forte guida, ora di origine popolare, ora un uomo di successo in dissenso con l’élite di provenienza, che si faccia interprete di una presunta “volontà popolare”.
In primo luogo, dobbiamo constatare che modi di pensare che contrassegnano il populismo sono ormai largamente presenti nell’opinione pubblica, nella quale sono stati alimentati dai media (gli stessi che ora ne denunciano la pericolosità). Il disprezzo per il ceto politico professionale, l’ostilità nei confronti delle banche e dei circoli finanziari; l’attribuzione della qualifica di corrotti o di nepotisti ai membri di ogni élite sono temi ricorrenti nei media. Va nella direzione del populismo anche chi contrappone alla “politica”, sempre corrotta, una “società civile”, sempre onesta e capace. Certamente molti di questi luoghi comuni hanno trovato e trovano alimento in comportamenti negativi largamente diffusi nella nostra società e, se pure sono sempre sbagliate le generalizzazioni, possono essere comprensibili.
Il populismo, ci dice infatti Mény, si afferma quando nella società si è verificato il fallimento delle élites. Queste sono una necessità, ma sono legittime soltanto se sono all’altezza del proprio compito, ne accettano le responsabilità e hanno la capacità di rinnovarsi al loro interno. Se diventano un gruppo chiuso in se stesso, le élites sono destinate al fallimento. Oggi si sta affermando la convinzione che le élites politiche abbiano tradito la fiducia di coloro che rappresentano. L’intellettuale francese constata che in troppi paesi la democrazia si riduce alla semplice ricetta di “capitalismo più elezioni”, come se le forme della democrazia fossero più importanti della sostanza. Molto dura è la conclusione di Mény: “Il principio della rappresentanza e quello del potere popolare sono i due pilastri della democrazia, ma oggi il punto di equilibrio tra questi due principi si sta allontanando troppo dalla fonte della legittimità, cioè dal popolo. Così, si diffonde una concezione distorta della democrazia, poiché la ricerca di un più diretto coinvolgimento dei cittadini rappresenta una questione centrale per qualsiasi democrazia”.
Certamente le élites, e quelle politiche in particolare, possono andare incontro a processi di decadenza. Credo, tuttavia, che il problema odierno sia molto più rilevante e grave perché a essere in crisi non è solo il ceto politico, ma sono le stesse istituzioni democratiche. Grillo è un sintomo, non la causa del male.
Come conseguenza della globalizzazione, gli Stati nazionali, l’ambito in cui si svolge l’attività politica, sono stati in gran parte spogliati degli strumenti con i quali esercitavano il controllo del proprio territorio e della società. I governi non sono più in grado di conseguire i propri obiettivi politici e in particolare di attuare politiche economiche, perché è il mercato che detta le regole e li giudica. Decisioni, che coinvolgono la vita presente e futura di milioni di esseri umani, sono prese da organismi estranei allo Stato nazionale, da organismi privi di rappresentatività, come il Fondo monetario, la Banca mondiale, il WTO, oppure dalle grandi multinazionali. Il decadimento del ceto politico dipende in gran parte dall’impotenza in cui è costretto a muoversi per lo svuotamento di significato dell’attività politica. A farla da padrone è il mercato con i suoi automatismi.
In tutti i Paesi, la gente ha compreso di contare poco o niente sul terreno politico e che le sue istanze e necessità non trovano espressione nelle istituzioni. Il diffuso assenteismo elettorale ne è il segnale. Tuttavia l’assetto economico-politico attuale è stato tollerato finché ha garantito un qualche progresso materiale e sociale. Oggi, di fronte alla grave crisi della quale non si intravedono a breve vie di uscita, questa situazione non viene più accettata.
Questo processo è maturato per gradi. In un primo tempo, sono stati mandati a casa i partiti al governo per sostituirli con quelli di opposizione. Ma quando si è visto che così non cambiava niente, allora è stata messa al bando la classe politica nel suo insieme. La soluzione invocata consiste nel mandare al potere la “società civile”, o semplicemente chi non si è mai occupato di “politica politicante”, i semplici cittadini. Oggi vengono allo scoperto quanti non accettano più la loro condizione sociale e mettono sotto accusa non solo l’assetto politico-economico, ma anche le istituzioni: prende corpo l’idea che il difetto stia nel manico e che sia la democrazia rappresentativa a non funzionare più. Ha scritto Mario Deaglio che la base socio-economica del “grillismo” è costituita da quel gruppo numeroso e dimenticato di giovani privi di un lavoro stabile e di un reddito sufficiente per una vita normale, a cui si sono aggiunti lavoratori autonomi che hanno chiuso o stanno chiudendo l’attività senza intravedere un futuro. È una parte consistente della popolazione che ha preso coscienza di sé e si chiama fuori dal tradizionale gioco politico.
Se l’esplosione elettorale del Movimento 5 Stelle ha colto di sorpresa la pubblica opinione europea, bisogna riconoscere che, un po’ ovunque in Europa, movimenti “populisti”di varia natura riempiono le piazze fisiche o virtuali, e cominciano a conseguire successi anche nelle urne elettorali. Certamente sono movimenti che difettano di una visione d’insieme dei fenomeni negativi denunciati e che non sanno interpretare le cause complesse che li determinano: hanno quindi grande difficoltà a formulare proposte che possano rispondere alla domanda delle tante diverse voci che formano il multiforme dissenso. Ma se anche tali movimenti dovessero dimostrarsi effimeri, come è probabile, altri ne sorgeranno. Oggi, troppo facilmente si dice che per arginarli basterebbe moralizzare la vita politica. Ciò non basta, perché nella protesta e nei movimenti c’è soprattutto la richiesta di una vera partecipazione.
Certamente appare utopico e improponibile invocare la democrazia diretta in una società complessa e di dimensione non confrontabile con quelle delle poleis elleniche o dei comuni medioevali, e non credo che internet possa rendere possibile una agorà telematica. Tuttavia bisogna ricercare un coinvolgimento più diretto dei cittadini nella sfera politica perché, come ha detto Mény, si tratta di una questione centrale per la sopravvivenza della democrazia. È questo uno spazio che le forze politiche responsabili devono esplorare per trovare soluzioni praticabili. Qualche cosa in argomento si può già dire.
In primo luogo, non bastano strumenti del tipo delle primarie, strettamente legate ai sistemi elettorali maggioritari. Fin tanto che, nell’Occidente, avremo maggioranze parlamentari e governi eletti con il 25%, e frequentemente meno, degli aventi diritto al voto, non solo non si potrà parlare di “democrazia partecipativa” ma nemmeno più di “democrazia rappresentativa” (che, per essere tale, deve rappresentare a livello istituzionale l’articolazione sociale e culturale del Paese).
Secondariamente, in una democrazia, il ruolo dei partiti (non semplici comitati elettorali) è insostituibile nella mediazione tra cittadini e istituzioni. Senza partiti veri, provvisti di una larga base di militanti, capaci di elaborare progetti di lungo respiro e di svolgere una funzione pedagogica non si va da nessuna parte. Le élites sono necessarie, ci ha detto Mény. Ritengo che lo siano anche nei partiti. Ma il compito di una “élite democratica” non consiste nell’imporre ai cittadini una visione del mondo dettata da una ideologia di cui è custode o da un sapere tecnico di cui è esclusiva depositaria. È piuttosto una funzione maieutica, atta a suscitare dibattito e partecipazione da cui, come una levatrice, far nascere valori condivisi e progetti di rinnovamento. Occorre poi valorizzare le istituzioni e gli spazi decisionali più decentrati, ove la partecipazione e il controllo dei cittadini sono più praticabili.
C’è un legame stretto tra assetto economico-sociale e istituzioni. Credo sia legittimo chiedersi fino a che punto l’assetto economico-sociale attuale sia compatibile con una democrazia reale, partecipativa. Emmanuel Todd, demografo e sociologo francese, (in Dopo l’impero) e Mario Deaglio (in Postglobal) hanno evidenziato che l’intensificazione prioritaria degli scambi tra Paesi vicini conduce alla costruzione di regioni economiche integrate su scala continentale o subcontinentale, in grado di mantenere la propria autonomia economica, politica e culturale. Mentre la globalizzazione, nella forma attuale, determina all’interno dei Paesi crescenti squilibri sociali e così favorisce la progressiva trasformazione degli ordinamenti democratici in assetti istituzionali sostanzialmente oligarchici, il policentrismo sulla base di grandi regioni favorisce la tendenza democratica consentendo maggiori tutele dei lavoratori e una più equa ripartizione del reddito nazionale. Quindi il futuro della democrazia dipenderà anche da come evolverà il processo di globalizzazione.
Non sopravvalutiamo i grillini nel bene o nel male: comunque il pericolo per la democrazia non viene di lì.


Dino Ambrosio - 2013-03-27
Volevo dirvi che sono io che ho mandato il messaggio che voi avete pubblicato come non firmato. Se non è comparsa la firma forse c'è stato un disguido nella trasmissione. Non chiedo che voi lo firmiate ora, se volete fatelo pure, ma era solo perchè non mi piace chi si nasconde dietro l'anonimato e tanto meno lo voglio fare io.
non firmato - 2013-03-24
Credo che la crisi politica nella quale ci troviamo sia la conseguenza della caduta dei valori (egoismo) e della crisi economica. Da una parte è venuto meno il benessere nel quale ci siamo crogiolati per decenni dall’altra è mancato un disegno politico di grande respiro per superare le difficoltà che si è tardato a capire nella sua portata effettiva. Si è navigato per troppo tempo “a vista”, e senza vedere. Ma non dobbiamo ignorare che il populismo e la protesta sono state alimentate non soltanto dalla inadeguatezza, ma anche dalla disonestà di molti politici che ci hanno governato in questi anni. Di fronte alle risorse che mancano ed alle difficoltà che emergono non si è saputo dare delle risposte politiche capaci di coinvolgere la gente nei sacrifici che occorreva fare per superarle. I partiti politici, slegati dalla realtà della vita della gente, sono andati alla ricerca del consenso non discutendo sulle idee e di programmi “sostanzialmente validi” ma solo cercando di convincere gli elettori che erano tali utilizzando per raggiungere questo obiettivo slogans e personaggi carismatici o ritenuti tali. Ora tutti i nodi vengono al pettine e, come sempre, sarà la povera gente a pagare il conto, ma l’auspicabile e non più procrastinabile cambiamento necessario non potrà fare a meno di coinvolgere la gente nelle scelte dovrà essere rivolto non soltanto di sopravvivenza immediata (gli otto punti di Bersani) ma dovrà avere uno sguardo rivolto ben più in là. Se vogliamo risolvere qualche problema dovremo prima o poi metterci a parlare di cosa fare. C’è già stato chi diceva che la crisi non c’era…. i ristoranti erano pieni…. sarebbe altrettanto colpevole credere ora che basti dimezzare il costo della politica e ridurre i parlamentari per risolvere i problemi.
Paolo Parato - 2013-03-23
Mi sembra un'analisi in buona parte condivisibile a parte l'ultima frase. Penso che i grillini siano un pericolo per la democrazia. Quale la risposta possibile: il rinnovamento della classe politica, la riduzione dei privilegi, la valorizzazione della partecipazione (ad esempio è sbagliato "uccidere i comuni" riducendone le possibilità di operare, bisogna invece renderli responsabili sia delle entrate che delle uscite). Ma questo non basta se non si riduce la forbice tra redditi alti e redditi bassi, se non si valorizza il lavoro rispetto alla finanza, se non si colpisce duramente chi fa il furbo (evasione fiscale, corruzione ecc.), in definitiva occorre ridare speranza e senso di responsabilità. Sarebbe utile se la nuova dirigenza dell'Associazione Popolari organizzasse una tavola rotonda su questo tema: Come possiamo rispondere a questa ondata di populismo e di protesta?