Le urne hanno dato un responso inatteso che ha vanificato le speranze di chi immaginava un successo raggiungibile con scorciatoie fondate su premi elettorali. Dalla consultazione non è emerso un vero vincitore mentre c’è stato uno sconfitto certo: il sistema bipolare. Sarebbe il caso di prenderne atto e di mettere in soffitta ogni ipotesi di riforma elettorale in senso maggioritario.
Nello scorso autunno, a commento delle elezioni regionali siciliane nelle quali l’astensione dal voto ha superato il 50%, è stato detto da parte di quasi tutti i commentatori politici che si è trattato di un segno grave del distacco dei cittadini dalla politica. Fra questi, c’erano in prima fila coloro che da tempo ci propongono il sistema elettorale maggioritario e il connesso bipartitismo come gli unici strumenti per fare del nostro Paese una “democrazia matura”. Ma quando si fa loro presente che nelle cosiddette “democrazie mature” l’astensionismo elettorale è altissimo, ci sentiamo rispondere che in questo caso non si tratta di un fenomeno negativo perché la bassa affluenza alle urne è piuttosto segno di fiducia nella classe politica, che in questi Paesi, quale dei due partiti in gioco vinca, sa sempre rispondere alle esigenze dei cittadini. Infatti, aggiungono, con il “bipartitismo responsabile”, volto a conquistare i voti dell’elettorato mobile di centro, è comunque assicurato il buon governo, indipendentemente dall’andamento elettorale.
Sarebbe bene ricordare che l’essenza della democrazia non è riconducibile alle sole procedure: una società è democratica quando i cittadini hanno voce preminente nell’indirizzarne le scelte, e quando le decisioni assunte incidono sulle loro condizioni di vita. Se, invece, ciò non accade e la gente comprende di non contare nelle sedi istituzionali, allora diserta le urne. In libere elezioni, l’astensionismo è quindi sempre ed ovunque segno di crisi della democrazia; anzi il suo tasso ne misura la febbre e quindi lo stato di malattia.
Ci sentiamo continuamente dire che il sistema maggioritario è il più idoneo per consentire ai cittadini di scegliere chi deve rappresentarli. Peccato che la scelta, nei collegi, si possa esercitare, di fatto, solo fra due candidati (il cosiddetto “voto utile”) nei quali molti elettori non ritrovano le idee e gli interessi che vorrebbero loro delegare, sicché il Parlamento che ne risulta eletto non rappresenta la società in tutte le sue articolazioni culturali e sociali, mentre dovrebbe essere il luogo in cui si varano leggi in sintonia con gli orientamenti del Paese. Oggi invece il Parlamento è considerato solo il predellino per salire al governo, la “stanza dei bottoni” dove si esercita il potere. Ma ci ricorda Yves Mény (Presidente dell'Istituto universitario europeo di Firenze) che così si sopravvaluta il ruolo del governo perché nelle sue stanze non ci sono i magici “bottoni”di comando, come già aveva constatato Pietro Nenni nei lontani anni Sessanta. Così, in nome della governabilità, ha scritto Luciano Canfora, vengono estromesse le rappresentanze delle minoranze socialmente più inquiete e delle correnti culturali non ancora omologate al pensiero dominante. Ricordo che, fra queste, oggi sono a rischio di esclusione anche i cattolici.
In un dibattito televisivo, Arturo Parisi, strenuo fautore del bipolarismo e del sistema maggioritario, ha sostenuto che il meglio è nemico del bene. Pertanto, le scelte da proporre agli elettori devono essere chiare e dirimenti: a tale fine, due schieramenti sono sufficienti per interpretare le esigenze di un elettorato ancorché differenziato. Solo così si garantisce la governabilità reale mediante esecutivi capaci di prendere decisioni e procedere su un cammino di cambiamento. Ma le direzioni di marcia su cui procedere sono molteplici e non sono solo due. Perfino ad un incrocio stradale, le direzioni che si possono prendere sono almeno quattro. Così è anche nella politica.
Tempo fa, Alain de Benoist, un politologo francese discusso ma certamente acuto, ha fatto una interessante considerazione che ritengo valida anche per il nostro Paese, anzi per l’intero Occidente. La maggior parte delle persone, per dare il voto a un partito o a uno schieramento politico, assegna priorità ai programmi economici e alla visione che viene proposta dell’essere umano e della sua libertà. Con riferimento all’economia schematicamente, si differenziano i liberisti (per i quali il mercato è posto al centro di tutto essendo ritenuto in grado di dare automaticamente soluzione ai problemi) dai non liberisti (per i quali l’economia è uno strumento che deve essere orientato dalla politica in vista di obiettivi condivisi); circa il secondo aspetto, si possono distinguere i libertari (per i quali ognuno costruisce i propri riferimenti etici ponendo al centro il proprio progetto di vita), dai non libertari (per i quali la vita individuale deve essere orientata da valori condivisi dalla comunità di appartenenza, finalizzati al bene comune e al consolidamento dei legami sociali). In base a questi due principali riferimenti, risultano pertanto teoricamente possibili quattro combinazioni: i liberisti-libertari (ad esempio i radicali italiani); i liberisti-non libertari (una rilevante parte delle attuali destre occidentali); i libertari-non liberisti (le attuali sinistre alternative, i verdi, e parte delle socialdemocrazie); i non liberisti-non libertari (ad esempio, i cattolici democratici). Il sistema maggioritario con il connesso bipartitismo, di fatto, consente a solo due dei quattro teoricamente possibili schieramenti di partecipare alle elezioni con speranza di mandare in Parlamento un sia pure minimo numero di rappresentanti.
Trovo curioso che si senta dire, da autorevoli commentatori politici, che il sistema maggioritario, per esigenza di semplificazione delle scelte, impone di lasciare fuori dalla competizione politica le questioni etiche e le concezioni antropologiche (quelle che contrappongono libertari e non libertari). Se in argomento, aggiungono, ci saranno leggi da approvare, i parlamentari eletti si esprimeranno secondo libertà di coscienza. Discorso inaccettabile: quale rappresentatività in materia avrebbero costoro per imporre al Paese le loro personali idee? Una politica che non si fondi su una visione del mondo e che non tenga conto anche dei valori si riduce a semplice amministrazione. Su tali questioni, lascia campo libero al mercato che oggi, grazie alla pubblicità, alle mode e ai conformismi che suscita, è diventato l’unico arbitro della graduatoria dei valori, assumendo funzione di regolazione anche in quegli ambiti di vita finora tenuti insieme normativamente da valori etici condivisi dalla comunità, dai costumi e dalla religione.
Oggi, a ben vedere, nei sistemi maggioritari-bipolari, troviamo presenti in campo sostanzialmente i “progressisti”di orientamento tendenzialmente socialdemocratico o liberal (in larga misura riconducibili ai libertari-non liberisti) ed i “conservatori” (catalogabili come liberisti-non libertari). Ebbene ciascuno dei due schieramenti si propone obiettivi contraddittori.
I conservatori non si rendono conto che l’attuale turbocapitalismo, a cui il liberismo dà uno spazio totale, mediante i processi di demolizione creatrice di cui si avvale, è la principale causa di una accelerata trasformazione del mondo che si accompagna non solo alla distruzione delle strutture economiche non in grado di tenerne il passo, ma altresì di ogni tradizione, di ogni cultura, di ogni legame di appartenenza. Il liberismo è quindi incompatibile con la difesa di quei valori di cui i non libertari di stampo conservatore si dichiarano sostenitori. Vediamo già oggi come, in seno alla famiglia conservatrice europea, sempre più si facciano strada idee e vengano messe in campo proposte di carattere libertario. Conservatorismo al passo con i tempi viene definito, ma c’è da chiedersi che cosa mai esso voglia o possa conservare.
Anche nell’altro campo, le sinistre radicali e quelle riformiste (riconducibili ai libertari-non liberisti) si propongono obiettivi contradditori. La modernità, che entrambe esaltano e della quale si sentono le precorritrici, ha distrutto e distrugge molte forme di vita sociale e di relazioni personali soffocate nella società di massa. La precarietà e l’insicurezza oggi imperanti si rivelano negative non solo nei luoghi di lavoro, ma stanno alla base dei disagi esistenziali di chi vive in contesti (a partire da quelli familiari) in cui non esistono più legami stabili e riferimenti normativi condivisi, ma tutto viene sempre rimesso in discussione. Non si può pertanto esaltare, nella dimensione della vita privata, l’individualismo più spinto che rifiuta ogni tipo di legame e di impegno stabile, e nel contempo professare la solidarietà a livello sociale. Questa non è sostenibile nel lungo periodo se vengono meno i legami solidi sui quali è costituito il tessuto sociale e si fonda il capitale sociale. Così anche in questo campo si vanno facendo strada le idee liberiste.
Con la globalizzazione (sempre considerata positiva), i governi nazionali, anche a guida riformista, sono costretti ad adeguare le loro politiche economiche e sociali a decisioni di poteri (la grande finanza) che sfuggono al loro controllo. Così i riformisti incontrano crescenti difficoltà nell’elaborare credibili programmi economici non condizionati dal dominante pensiero liberista. Certamente si preoccupano dell’equità e della solidarietà sociale, ma finiscono di fare, a malincuore, più o meno la stessa politica economica della destra, perché costretti dai fatti. Anche la sinistra alternativa ha abbandonato ogni progetto di cambiamento della società e si concentra nella difesa dei “diritti”. Ma questi vengono declinati in un’ottica individualistica: sono infatti concepiti slegati dai doveri, dalla solidità del tessuto sociale e dalla disponibilità di risorse, quasi piovessero dal cielo o fossero dispensati da istanze mitologiche quali la modernità, il progresso o un benefico mondo nuovo prodotto dalla tecnologia.
Non dobbiamo pertanto meravigliarci se, nei sistemi bipolari, liberismo e libertarismo sono destinati ad incontrarsi e a non lasciare spazio ad altro: sono le due facce di una stessa medaglia che ha come materiale costitutivo un individualismo estremo. Non è quindi casuale che nelle “democrazie mature” le offerte politiche delle due parti in campo siano sempre meno distinguibili e che pertanto non faccia molta differenza chi sia il vincitore del confronto elettorale: di qui l’ampio e crescente astensionismo. E poiché, inoltre, non saranno queste offerte politiche (tendenzialmente liberiste e libertarie) a metterci in grado di affrontare le molte crisi che ci troviamo di fronte (non solo crisi economica, ma anche sociale, occupazionale, demografica, ambientale, per esaurimento delle risorse, per squilibri tra nord e sud del mondo, per processi migratori fuori controllo), credo sia lecito dissentire rispetto a questo modello di “democrazia matura”, e avere un’altra idea della democrazia: una democrazia che, in sintonia con la Costituzione, abbia al centro un parlamento rappresentativo dell’articolazione sociale e culturale del Paese. |