Sono bastate poche settimane di campagna elettorale per trasformare Mario Monti, da uomo super partes a semplice parte in causa. Ancora qualche mese fa veniva giustamente considerato una sorta di salvatore della patria, adesso invece si ritrova a essere il leader di un centro già fin troppo zeppo di capi o presunti tali.
Forse era l’inevitabile pedaggio alla discesa, o salita, in campo, ma il rammarico resta perché il Professore se fosse rimasto il gran commis al servizio del Paese, in futuro avrebbe potuto sicuramente ricoprire ruoli di primo piano e di grande prestigio. Invece ha preferito, cedendo alle lusinghe della politica spicciola, entrare nell'arena pubblica e, da quel momento, tutto intorno a lui è come evaporato.
Persino la sua famosa agenda è divenuta confusa, anche perché nella fregola elettorale è stato lui stesso a rimetterla in discussione. Caso emblematico quello dell’IMU, che ha promesso di modificare prima possibile. Quasi dimenticando che quest’imposta, con un gettito di oltre 20 miliardi, è indispensabile per tenere in ordine i conti pubblici, e che inoltre rappresenta sia quell'abbozzo di patrimoniale assente nel nostro ordinamento tributario sia il primo segno di decentramento fiscale, poiché gli immobili sono legati al territorio.
Non è però di fisco che vogliamo parlare, ma del fatto che se persino Monti inizia a discettare sulle imposte messe dal suo governo, significa che anche lui si è perfettamente adattato al tipico clima, un po' demagogico, di ogni campagna elettorale. E chissà mai se ritroveremo lo statista di qualche tempo fa.
C'è poi da chiedersi quali siano le reali prospettive politiche del Professore. Forse quella di tornare a Palazzo Chigi in caso di pareggio tra i poli? Difficile pensarlo, poiché pare probabile che, comunque vada, il PD prenda più voti del centro montiano e che quindi la presidenza del Consiglio tocchi a Bersani, leader del partito di maggioranza relativa. Così almeno ci aveva insegnato la fin troppo vituperata prima Repubblica.
Unica eccezione di quegli anni, fu l'ascesa a premier di Bettino Craxi, quando, dopo le elezioni del 1983, volle diventare premier ricattando la DC che aveva più del doppio dei suoi voti. Era l'epoca di Ghino di Tacco, a cui tutti dovevano pagar dazio. Per la verità, riesce difficile immaginare Monti nei panni del taglieggiatore politico, ma proprio per questo è assai stridente la sua perentoria affermazione di non voler diventare ministro di un governo guidato da altri, lanciando implicitamente l'improprio diktat: o palazzo Chigi o niente.
Inutile comunque preoccuparsi, il voto chiarirà tutto e, magari, finirà realmente per premiare le ambizioni montiane. Per ora resta il fatto che il Professore è divenuto uno dei tanti; importante leader del suo schieramento (a mezzadria peraltro con consumati politici come Fini e Casini) ma non di sicuro il protagonista di una nuova stagione politica come avrebbe potuto invece essere se fosse stato candidato unitariamente da PD ed UDC, in una grande alleanza riformista e moderata, da presentare agli elettori prima del voto. Venendo meno questa ipotesi, che probabilmente sarebbe stata la migliore possibile per il Paese, e alla quale il PD non ha creduto, puntando sulle primarie, crediamo che per Monti sarebbe stato meglio evitare di scendere in campo, rimanendo piuttosto nella riserva di una Repubblica che oggi, purtroppo, non ha più riserve.
Abbiamo cioè sperato che Monti, fatte tutte le debite differenze di contesto storico e personale, diventasse il De Gaulle italiano, ovvero lo statista capace di trasformare la nostra politica con un grande progetto di equità e sviluppo, tenendo finalmente insieme il mondo del lavoro e la borghesia produttiva. Anziché un nostrano De Gaulle ci ritroviamo, per stare sempre sull'esempio francese, ad avere un emulo di Bayrou, ambizioso mentore di un piccolo centro, ago della bilancia, che, alla fine, renderà scarsi servigi al Paese. |