Nel libro Frontiere della vita, frontiere della tecnica (Il Mulino 2011) Hans Jonas affronta il tema della relazione tra etica e politica nella società tecnologica. Ritengo che gli interrogativi posti dal filosofo debbano essere tenuti presenti da tutti coloro che intendono la politica non solo come attività prevalentemente indirizzata all’immediato, ma come elaborazione di progetti di ampio respiro in grado di rispondere anche ai problemi di un prossimo futuro di cui già si intravede la fisionomia.
Nella società premoderna, l’etica aveva come oggetto i soli fatti che si verificano tra esseri umani in situazioni per lo più ricorrenti. Il suo orizzonte era limitato ai contemporanei, nell’arco prevedibile delle loro vite, e non andava oltre i luoghi in cui chi agisce incontra il suo prossimo. Nessuno era ritenuto responsabile delle conseguenze involontarie del suo atto se compiuto a fin di bene e correttamente eseguito. La responsabilità etica, inoltre, non coinvolgeva tutto ciò che era extra umano (la natura, gli altri esseri viventi, l’ambiente e la Terra stessa). In un tale contesto, Immanuel Kant affermò che “non c’è bisogno né di scienza né di filosofia per sapere ciò che si deve fare per essere onesti e buoni, e persino saggi e virtuosi”. Ma, ci dice Jonas, questa affermazione non è più sufficiente sul piano etico nel mondo in cui oggi viviamo, e ciò da quando lo sviluppo tecnologico ci ha dato un immenso potere.
L’uomo fin dai tempi più antichi ha messo a punto degli strumenti tecnici in grado di incidere sull’habitat in cui vive ed ha fatto uso o si è servito delle creature che lo abitano. Ma nel passato, la tecnologia era uno strumento finalizzato al perseguimento di fini immediati, ben precisi e limitati, e gli effetti sulla natura erano assai modesti. Oggi non è più così. Sono infatti sempre più manifeste le ferite inferte dalla moderna tecnica alla natura e ci stiamo rendendo conto che essa è vulnerabile, ancorché molti non lo comprendano ancora. La natura, pertanto, viene a costituire un nuovo oggetto verso il quale estendere la nostra responsabilità anche sul piano etico. Ad essere minacciata dalla volontà prometeica dell’odierno homo faber non è solo la natura come comunemente intesa, ma è l’uomo stesso, diventato ormai uno degli oggetti sui quali si esercita l’ambizione di una tecnologia che vuole rendere tutto artificiale, cioè da essa determinato. In tale contesto, si colloca il desiderio del moderno homo faber di acquistare il controllo della propria evoluzione, mediante interventi di ingegneria genetica e di selezione embrionale, con il velleitario intento di perfezionare l’essere umano fino a creare una specie nuova.
La tecnica moderna, inoltre, ha enormemente dilatato la distanza temporale e spaziale tra le azioni e gli effetti prodotti, sicché oggi diventa difficile collegare cause ed effetti. I nostri atti quotidiani possono aver ricadute negative in paesi lontani, sovente del sud del mondo, o andare in futuro a gravare pesantemente sui nostri nipoti e pronipoti, senza che ce ne rendiamo conto. Per valutare le conseguenze dei nostri atti, e quindi per agire responsabilmente, diventa necessario possedere una conoscenza commisurata alla enorme portata degli effetti che la tecnica conferisce al nostro agire. Tuttavia, per prevedere gli effetti delle nostre azioni tecniche, non è sempre sufficiente disporre di una conoscenza tecnico-scientifica aggiornata perché questa risulta comunque sempre in ritardo rispetto alle continue nuove competenze con le quali siamo in grado di operare: bisogna pertanto riconoscerne i limiti rifiutando l’hybris che caratterizza l’uomo tecnologico. Occorre non solo essere informati scientificamente ma anche essere saggi: la consapevolezza di “sapere di non sapere a sufficienza” ci impone di essere prudenti e di adottare sempre il principio di precauzione per gestire il nostro smisurato potere.
Di fronte a un mondo così profondamente mutato per la potenza degli strumenti a nostra disposizione, le tradizionali prescrizioni etiche restano ancora valide nella sfera più prossima dell’interazione tra gli esseri umani, ma non sono più sufficienti. Si rende necessaria, scrive Jonas, una nuova etica della previsione e della responsabilità adeguata ai problemi che dobbiamo affrontare. Questa necessità ci riguarda come singoli ma soprattutto come attori dell’agire collettivo. La moralità deve far sentire la sua voce nella dimensione pubblica per valutare la produzione e l’uso della tecnologia. Di ciò deve farsi carico la politica che di fronte a questi nuovi compiti etici dovrà modificarsi profondamente ed ampliare il suo raggio di azione.
E qui incominciano gli interrogativi.
Il primo lo pone lo stesso Jonas. Oggi viviamo in una società in cui conta la sola dimensione del presente. Il sistema comunicativo e il consumismo ci invitano a vivere nel breve termine, anzi nell’istantaneità. Scrive Jonas che nelle istituzioni pubbliche il futuro non è rappresentato, non ha una lobby e i non ancora nati non hanno voce. Inevitabilmente anche la politica finisce per cercare il solo consenso a breve e quindi non è in grado di governare la tecnica, ma piuttosto è quest’ultima che impone a essa e a tutti noi l’adeguamento alle sue modalità di funzionamento.
Ci dice Jonas che la morte di Dio, delle ideologie e delle utopie ci impedisce di immaginare il domani. Venuto meno il senso del sacro, non ci sono più recinti da cui tenere lontane le incursioni di chi tutto vuole. Si fanno sempre più frequenti i richiami di Benedetto XVI all’esigenza di difendere la vita minacciata dall’artificiale e di tutelare la natura che si ribella ad un utilizzo indiscriminato, ma ogni discorso in “linguaggio religioso”, per quanto sia saggio, non trova adeguato ascolto in una società secolarizzata.
Quanto alle ideologie, distinguerei tra quelle che si sono manifestate come religioni secolarizzate e che hanno fornito motivazioni, seppure non condivisibili, per guardare al domani e farsi carico di responsabilità, e l’ideologia oggi dominante (un liberalismo radicale), perché non è vero che tutte le ideologie sono morte. In argomento, Giovanni Fornero (in Bioetica cattolica e bioetica laica) indica quale elemento centrale del pensiero laico (o meglio direi liberalradicale) la negazione della natura come realtà immutabile essendo essa un prodotto storico culturale, frutto dei continui interventi tecnologici dell’uomo sul mondo che lo circonda. Tale considerazione riguarda anche lo stesso essere umano, di cui si può dire che non ha natura, perché è l’uomo che determina la propria evoluzione e la propria storia attraverso le sue scelte. Di conseguenza non è possibile distinguere ciò che è naturale da ciò che non lo è. In questa ottica, la nostra specie, scrive Fornero, utilizzando gli strumenti offerti dalle scoperte biotecnologiche, potrà, se ritenuto opportuno, manipolare radicalmente se stessa, tanto da originare una specie nuova. Il presupposto del progresso dell’umanità sta nel libero sviluppo della conoscenza e della tecnologia che da essa discende.
È evidente la corrispondenza tra questo scenario disegnato dall’ideologia “laica” e il quadro fortemente negativo che Jonas denuncia, nel quale la tecnologia non è solo più un mezzo per produrre e soddisfare bisogni, ma è diventata lo strumento per la conquista di un controllo totale sulle cose e sull’essere umano stesso. In questo senso, lo sviluppo della scienza e della tecnologia è ritenuto il fine dell’agire umano, il compito a cui tutto deve essere subordinato. Ma ci dice Emanuele Severino che, con la piena affermazione della tecnocrazia, non ci sarà più spazio nella società per la religione, per l’umanesimo e per la democrazia. Ritengo che non sia necessario essere cattolico o semplicemente credente di qualsivoglia religione per rifiutare una tale prospettiva.
Anthony Giddens (non sospetto di essere animato da motivazioni confessionali) scrive che, se si vogliono evitare i rischi seri e irreversibili dello sviluppo tecnologico, non basta valutare di volta in volta l’impatto della tecnica sulle cose, ma occorre riesaminare la logica stessa di uno sviluppo scientifico e tecnologico inarrestabile: l’umanizzazione della tecnologia implicherà la crescente introduzione di problematiche morali nel rapporto ormai ampiamente strumentale tra esseri umani e ambiente creato. Pertanto, in tema di bioetica, la contrapposizione non è fra dogmatismo e indipendenza di pensiero, come viene detto solitamente dalla maggioranza dei media, ma è fra quanti ritengono di dover riesaminare la logica dello sviluppo tecnologico introducendo problematiche di ordine sociale ed etico e quanti esaltano incondizionatamente la tecnologia rifiutando di porre alcun limite al suo espandersi e agire.
Oggi, risultano inadeguate ai problemi che dobbiamo affrontare molte delle discriminanti che ancora definiscono le forze politiche in campo. Abbiamo visto il travisamento che sta dietro il concetto di laicità come oggi intesa dalla più parte dei neoliberali. Ma sono inadeguati anche termini come progressismo e conservatorismo. Debbo ancora citare Giddens quando afferma che l’illuminismo era convinto di poter comprendere e governare il mondo e la società mediante certezze fondate sulla ragione con cui sostituire i dogmi e le tradizioni. Previsione smentita dai fatti perché, aggiunge il sociologo, la modernità radicale in cui viviamo è caratterizzata dalla scoperta che niente può essere conosciuto con certezza e che la storia è priva di ogni finalismo.
Non c’è quindi (ne deduco) un cammino del progresso storico già tracciato sul quale procedere speditamente, come auspicano i progressisti; e altrettanto, in un’epoca in cui tutto viene rimesso continuamente in discussione, nessun valore può essere difeso dalla trincea del conservatorismo.
Chi, allora, deve farsi carico di rappresentare il futuro vista l’incapacità della politica come oggi è strutturata? C’è chi si propone per questo ruolo: ci sono i movimenti ambientalisti che si battono in difesa della natura; ci sono quanti, credenti e non solo, scendono in campo in difesa dell’inviolabilità della vita e della natura umana; ci sono coloro che denunciano le crescenti disuguaglianze e il disagio sociale connessi alle dominanti logiche economicistiche. E infine ci sono gruppi di persone, più o meno ampi, che tentano di dare vita a reti comunitarie solidali per affrontare tempi difficili contrassegnati da una minore disponibilità di risorse. Ma le azioni che caratterizzano questi attori rimangono per lo più confinate in singoli ambiti senza prendere in considerazione nel loro insieme i guasti e le minacce che derivano dalle logiche oggi imperanti nella società prodotta dalla globalizzazione.
C’è, pertanto l’esigenza di ricondurre a una visione di insieme quanto accade nei differenti settori per elaborare una strategia politica che coniughi la tutela dell’ambiente, la salvaguardia della natura e della dignità dell’essere umano nel contesto di una democrazia egualitaria e solidale. |