Commentando l’esito dell’Assemblea del PD, che ha dato le regole alle primarie di coalizione e il via alla sfida tra Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi e Niki Vendola, per la leadership del governo, alcuni autorevoli commentatori hanno insistito su una questione che alla maggior parte dei lettori sarebbe sfuggita: questa assemblea avrebbe registrato il tramonto della componente “popolare” del Partito Democratico. E questo fatto sarebbe l’effetto della strategia del segretario del PD, che decidendo a favore di “primarie aperte” e ponendo un limite ai mandati parlamentari, ha assunto una posizione speculare a quella dichiarata da Renzi, “il rottamatore” Con queste primarie e le elezioni politiche del 2013 maturerebbe infatti una svolta politica destinata ad emarginare la maggior parte della nomenclatura che si è consolidata con Romano Prodi, poi con Walter Veltroni e infine con lo stesso Bersani. E questa operazione riguarderebbe soprattutto alcuni tra i più importanti esponenti “popolari”: Franco Marini, Rosy Bindy, Dario Franceschini…
Pier Luigi Castagnetti, che è stato l’ultimo segretario del PPI, ha dichiarato in una intervista a “La Stampa” che la svolta che si sta delineando, fa emergere un mutamento più importante, non solo anagrafico; riguarda cioè “una generazione che ha fallito”, corresponsabile della crisi che l’Italia sta attraversando. Ed è pertanto giusto “passare la mano” a una nuova generazione, “sperando che abbia l’intelligenza di capire meglio la stagione che stiamo vivendo”. In realtà Pier Luigi ha qualche dubbio sull’autorevolezza degli esponenti di questa nuova generazione, e sottolinea che, comunque, nelle prossime primarie voterà per Bersani.
Ma la questione che ha posto tocca alla radice le ragioni della crisi della politica: sulla quale, tuttavia, ho una opinione più articolata, che ritengo doveroso esporre anche per rispondere a una riflessione pubblicata su “www.landino.it”, che ho potuto leggere perché me l’ha inviata il senatore Ceccanti, il quale evidentemente la condivide. Giorgio Armillei nota come gli ex popolari siano diventati marginali nel PD, quando avrebbero potuto svolgere un ruolo significativo – “almeno quelli che, nella DC, stavano solidamente al centro ma muovendosi verso sinistra” – se avessero “coperto un ruolo di cerniera in un partito di sinistra rivolto verso gli elettori di centro”. Invece, scrive sempre Armillei, “hanno scelto la strada dei figli di un Dio minore”, si sono segmentati in quattro gruppetti, ognuno all’ombra di un esponente dell’ex PCI. E “almeno in questo Renzi ha segnato una rottura”. Ed è vero, io aggiungo, che Renzi ha riaperto il dibattito sull’identità del PD.
La riflessione di Armillei riguarda peraltro anche le “scelte culturali” cui si sarebbero riferiti gli ex popolari, che riassume così. a) Sarebbero stati più chiusi dei democristiani sul tema della revisione della Costituzione, e avrebbero preferito “la nostalgia regressiva dei comitati Dossetti” alla elezione diretta del presidente, sostenuta in sede costituente da Tosato. b) Avrebbero commesso lo stesso errore con riferimento alla “forma partito”, in particolare per ciò che riguarda la figura del segretario del partito, “primus inter pares.”. Avrebbero cioè riproposto per il PD “quella visione indifendibile che segnò il declino della DC”. c) Si sarebbero infine “accodati – sul rapporto tra politica ed economia – alla polemica antiliberista e vetero-socialdemocratica” della sinistra, “tranne qualche episodico sussulto di Enrico Letta”, dimenticando De Gasperi, Sturzo e il magistero sociale della Chiesa. C’è quindi da stupirsi se “il vuoto lasciato dagli ex popolari è stato occupato da Renzi”, che nella periferia sta togliendo consenso “a gruppi così conservatori”, ad ex popolari che sono ormai “una zavorra” anche per Bersani? C’è da stupirsi se in una partita che si gioca tra Bersani e Renzi, “ gli ex popolari saranno ai margini”?
A queste dure critiche del “landino”, che in qualche passaggio sono evidentemente pretestuose, risponderanno gli ex popolari del PD. Per quanto mi riguarda, come popolare che ha sempre votato per l’Ulivo e il PD, soprattutto perché in quelle liste c’erano molti miei amici, sapendo che non si possono riportare indietro le lancette della storia, vorrei ricordare che ho ritenuto un errore lo scioglimento del PPI e l’adesione alla Margherita, e poi la convergenza della Margherita e della Quercia in un unico partito, poiché ero convinto che questa avventura non avrebbe rafforzato la strategia di centrosinistra, ma l’avrebbe invece indebolita; avrebbe favorito lo scivolamento degli elettori “di centro” verso il polo conservatore, e avrebbe diviso i riformisti e i massimalisti, rendendo più difficile la nascita di una nuova sinistra di stampo europeo. Non pensavo che i popolari dovessero diventare la cerniera di un partito di sinistra, ma ero (e sono) un convinto sostenitore di una politica di centro-sinistra: con un trattino, che solo la concreta esperienza politica avrebbe cancellato. Sul terreno della cultura politica ero e sono per la difesa della Costituzione, della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto, e ricordo con commozione le ultime battaglie di Dossetti, “sentinella nella notte” della prima Repubblica contro il leaderismo. D’altra parte la Carta costituzionale del ’48 è stata confermata dagli elettori in occasione del referendum costituzionale del 2005, contro il secessionismo di Bossi e il presidenzialismo di Berlusconi.
Ero e sono contro la personalizzazione della politica, culla del trasformismo e della politica spettacolo, che si è realizzata nella deriva plebiscitaria espressa dal berlusconismo. D’altra parte la crisi della seconda Repubblica ha reso evidenti i limiti di un bipolarismo che per evitare il naufragio della nave Italia ha affidato il timone a Mario Monti, un premier di valore europeo, non di destra e neppure di sinistra.
E spero che gli ex popolari, mentre si impone il ritorno alla politica con l’assunzione di pesanti responsabilità, non considerino che solo “la vocazione maggioritaria” risponde alla domanda di politica. La DC si è dissolta perché, in una fase di mutamenti che riguardavano l’orizzonte in cui si era collocata storicamente l’unità politica dei cattolici, si è arresa all’idea che solo “il potere riproduce il potere”; e i cristiani sono rimasti sordi all’invito del cardinal Martini a riconoscersi una minoranza (non una setta) che deve essere “sale e lievito” nel tempo che è loro dato da vivere. |