Ogni vera svolta della politica italiana è stata accompagnata da una svolta generazionale. Questa regola si ripropone con la fine della seconda Repubblica insieme alla polemica contro la casta che ha governato il Paese: il cambiamento più urgente riguarda infatti chi è al potere, chi ha condiviso le scelte di Berlusconi. Tuttavia è evidente che anche nel PD, con le elezioni primarie, si è aperta una sfida generazionale. Matteo Renzi, sindaco di Firenze, si è candidato alla guida del partito e alla stessa premiership.
In realtà, se comprendiamo il significato di questa vicenda, la sfida di Renzi riguarda più che Pierluigi Bersani, il gruppo di comando del Partito Democratico, un vertice composto da politici che, al momento del declino dei partiti che costituivano i pilastri della prima Repubblica, erano impegnati nel “rottamare” la classe dirigente, centrale e periferica, della DC e del PCI. La storia insegna che “chi di spada ferisce…” con quel che segue.
Negli anni ’90, dopo il crollo del Muro di Berlino e Tangentopoli, si imponeva un rinnovamento della politica che passava anche attraverso un radicale ricambio della classe dirigente. Oggi, su questo nodo, che se non è sciolto va tagliato, Renzi sta raccogliendo molti consensi, e appare l’unico in grado di contendere la piazza a Beppe Grillo. Anche se ad entrambi si può rivolgere la critica di essere incerti nell’indicare un programma davvero alternativo a quello dei partiti tradizionali. La polemica di Grillo è più violenta e volgare, e riguarda le stesse istituzioni democratiche, mentre i discorsi di Matteo Renzi sono costruiti sull’esperienza dei sindaci, e insistono sul rapporto quotidiano degli amministratori con la gente.
In un passato che sembra oramai remoto, penso alle elezioni del 1968 e del 1976, le nuove generazioni che si affacciavano alla politica, proponevano “alternative” costruite soprattutto sulla linea politica, sul programma di trasformazione della società e sulle alleanze necessarie per realizzarlo. Su queste questioni, decisive per chi punta al governo del Paese, è ormai evidente che bisogna avere qualche idea in più, ed essere consapevoli che nella primavera del 2013 sia la destra che la sinistra dovranno fare i conti con l’agenda Mario Monti, con un programma che sembra senza alternative. Altrimenti potrebbe avere ragione chi ha scritto: “il giovanilismo è la malattia senile della seconda Repubblica”, e ha aggiunto a questa provocazione un lungo elenco di parlamentari e di consiglieri regionali, arrivati da poco all’impegno politico, noti solo per il denaro pubblico che hanno dissipato.
La svolta generazionale, se non è anche svolta morale, non porterà a sostanziali cambiamenti dell’orizzonte politico, e non ridurrà il solco che separa la società civile dalle istituzioni.
La discesa in campo di Renzi ha un secondo merito: ha riaperto il dibattito sull’identità del PD, questione che riguarda l’avvenire del centrosinistra . Le riflessioni di Renzi esprimono infatti una critica alla tendenza, che – quasi per inerzia – sta affermandosi nel PD, a spostare il baricentro del partito verso sinistra, a privilegiare il dialogo con Vendola, per il quale – bisogna sottolinearlo – l’obiettivo di questa fase della vicenda nazionale è il partito unico della sinistra.
Tuttavia anche in questo caso, al merito si intreccia un limite: quando Bersani invita Renzi a dire con quale coalizione intende affrontare la sfida con la destra, il sindaco risponde riesumando l’immagine veltroniana del “partito a vocazione maggioritaria” che si rivolge agli elettori moderati, all’elettorato deluso dalla destra… ma non risponde sulla questione politica delle alleanze, necessarie per vincere e per governare. Questo è un limite, per chi afferma che ogni candidato deve dire, prima del voto, qual è il suo progetto politico, con chi intende governare il Paese.
Un’ultima riflessione ha a che fare con l’idea del partito a vocazione maggioritaria. Nel delineare il suo progetto, Renzi esalta le elezioni primarie e il sistema maggioritario, e non esclude affatto, in caso di riforma della Costituzione, l’elezione diretta del premier. C’è in questo progetto qualche eco della strategia naufragata con la seconda Repubblica, insieme a una meccanica trasposizione, a livello di Stato, dell’esperienza di sindaco e di presidente di Provincia. Due riforme votate dal parlamento della prima Repubblica, ormai sul viale del tramonto. Chi guarda con distacco, ma con qualche esperienza, alla personalizzazione della politica e alle elezioni primarie, non può ignorare che questa via, tendenzialmente plebiscitaria, comporta ferite profonde all’idea di partito disegnata dalla Costituzione e privilegia la via del trasformismo e del cartello elettorale, lungo la quale Berlusconi ha costruito la sua avventura. D’altra parte, come si può negare che l’uninominale-maggioritario, come a maggior ragione il “porcellum”, è un sistema che favorisce il consolidarsi della cooptazione della rappresentanza parlamentare e amministrativa da parte di chi decide le candidature? Come si può ignorare che il presidenzialismo è il perno di tutte le riforme plebiscitarie, tendenzialmente autoritarie?
Spero che la svolta generazionale, per molti aspetti necessaria, tenga conto di queste riflessioni e rafforzi la democrazia, la renda più aperta e più partecipata, rilanci la passione per la politica. E non si arrenda al populismo. |