La selezione della classe dirigente continua a essere un tema fortemente gettonato nella politica italiana. Tema antico ma sempre attuale per le modalità concrete con cui si traduce nella concreta dialettica politica. Certo, questo è un nodo che risente delle diverse circostanze storiche. Oggi sarebbe quanto mai azzardato proporre un modello che sino a 15-20 anni fa era quasi scontato, anche nella politica, anzi soprattutto nella politica.
Dovrebbe essere ovvio che improvvisazione e superficialità non possono e non devono avere il sopravvento. E quindi, radicamento territoriale, rappresentatività sociale, elaborazione culturale e soprattutto militanza. Categorie che però oggi appaiono quasi lunari. Elementi che – lo dico con un pizzico di orgoglio autobiografico – erano le “condizioni” che ci ripeteva Carlo Donat-Cattin ai vari corsi di formazione per i giovani della sinistra DC di Forze Nuove agli inizi degli anni ’80. Ma condizioni che, oggi, pur mantenendo una bruciante attualità, rischiano di essere legate solo a una stagione ideologica e politicamente blindata.
È imbarazzante – almeno per quelli che provengono dall’educazione politica che ho sommariamente richiamato – assistere alle dichiarazioni dei vari leader rottamatori del PD che annunciano di essere seriamente in difficoltà se “correre” per fare il Premier, o il Ministro, o il Segretario nazionale del partito o il Presidente della propria Regione. Con tutto il rispetto del caso, si parla di incarichi politici e istituzionali come se si discutesse di concorrere a Presidente della Pro Loco o di una locale sezione dell’ANA. Trentenni che, dando per ormai acclarata la loro leadership e il loro carisma, puntano a conquistare le leve del potere. Ora, è indubbio che esiste il tema – sempre esistito in tutte le fasi storiche e in tutti i regimi politici – del ricambio della classe dirigente e della sua circolarità. Ma colpisce il cinismo nell’anteporre la conquista del potere personale rispetto a qualsiasi altra valutazione politica e progettuale, se non presentando l’eterna carta di identità come arma rivoluzionaria per spodestare gli “usurpatori” attuali e insediarsi nei luoghi di comando. Certo, il Quirinale per il momento è salvo. Ma solo per impossibilità anagrafica. Salvo repentine modifiche costituzionali…
Ora, al di là delle battute, sono due le domande di fondo a cui occorre dare una risposta seria: è sufficiente la sola dinamica organizzativistica – e cioè il ricorso al dio primarie – per sciogliere il nodo della selezione della classe dirigente? E, in secondo luogo, dove e come si forma l’attuale o futura classe dirigente del Paese?
Domande, credo legittime, che rimandano a una questione decisiva per il futuro e la “qualità” della nostra democrazia. E cioè, la politica è appaltata alla sola dimensione “tecnica” o alla sfrenata ambizione personale dei rottamatori di turno, oppure esige e richiede una formazione adeguata e permanente che – suffragata da competenze, specializzazione ed esperienza – continui ad avere una visione generale della società senza ridursi ad un approccio ragionieristico e vagamente efficientista?
Se non si affronta di petto questo tema la deriva demagogica e anagrafica dell’intero sistema politico e della democrazia è nei fatti e nessun partito riuscirà a fermarla.
Le sole ambizioni personali dei vari rottamatori non sono preoccupanti, ricordando la battuta del vecchio Nenni “c’è sempre un puro più puro che ti epura”. È sufficiente, cioè, essere più giovani per scalzarti. Più inquietante, invece, è il modello che si trasmette alle giovani generazioni. E cioè, la politica come investimento tra i tanti, prevalentemente momentaneo, e quindi sganciato da qualsiasi riferimento valoriale e progettuale se non quello ricorrente della carta di identità. Un fatto di marketing, di appeal elettorale calibrato sui sondaggi. Se questo diventa il parametro, è la stessa democrazia a uscirne sconfitta, all’interno e all’esterno del partito di riferimento.
Ecco perché il capitolo della selezione e della formazione della classe dirigente non è un tema marginale per le grandi organizzazioni democratiche, popolari e di massa. Quei partiti cioè non plasmati sul carisma e sulla “dittatura democratica” di una sola persona – fenomeno presente, come tutti sappiamo, sia a destra che a sinistra – e ancorati all’idea che il rispetto della pratica democratica è l’unico antidoto contro qualsiasi forma populista e autoritaria.
Una caratteristica che non si può né si deve eludere. A cominciare, appunto, dal PD. |