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Porre limiti alla crescita non significa regredire
 
di Giuseppe Ladetto
 

Secondo Emanuele Severino “gli strumenti di cui l’uomo dispone hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi, questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale”. Quanti operano nell’economia non si sottraggono a questa tendenza sicché nel mondo contemporaneo la crescita del PIL, da mezzo per rispondere alle esigenze della società, è diventata un fine in se stesso. È un fenomeno coerente con la logica del capitalismo che si alimenta del ciclo investimenti/profitti/investimenti, senza cui non potrebbe reggere. In materia, Anthony Giddens (certamente non un utopista e nemmeno un veterocomunista) scrive che occorre mettere limiti ben precisi all’accumulazione capitalistica perché, non essendo autosufficiente in termini di risorse, non può protrarsi all’infinito.
Oggi fortunatamente incominciano a farsi sentire le voci di quanti ritengono indispensabile rimettere in campo il tema dei limiti dello sviluppo già introdotto, peraltro senza molto successo, nel lontano 1972 dal Club di Roma. C’è chi parla di “slow economy”, chi di economia stazionaria, chi, come Serge Latouche, di “decrescita”.
Nell’opinione di Irene Tinagli (“La Stampa” del 22 agosto scorso) le teorie anti-crescita affondano le radici nei movimenti anti-industriali dell’Ottocento e costituiscono un’illusoria utopia da contrastare perché pericolosa per le conseguenze che comporta. La critica di Tinagli, che riprende e riassume argomentazioni assai diffuse ma generiche, richiede qualche osservazione per riportare la questione nei suoi termini reali.
Limitare la velocità della crescita dei Paesi sviluppati non significa, come pensa Tinagli, farli tornare ai modi di vita della società preindustriale. Lo stesso Serge Latouche – forse il più radicale nella critica della crescita – indica, per i paesi industrializzati, il ritorno ai prelievi di materie prime e di risorse energetiche della metà degli anni Settanta quando il fondamentale bilancio tra le risorse del pianeta generate ogni anno e quelle prelevate era ancora in pareggio, mentre oggi il nostro conto corrente delle risorse è già in rosso dal 24 agosto. E aggiunge che le migliori tecnologie odierne potranno produrre una crescita dell’efficienza ecologica, sicché la riduzione dei consumi sarà minore del necessario diminuito prelievo di risorse naturali, migliorando in tal modo l’ambiente e la qualità della vita.
Aggiungo io che limitare la velocità della crescita a livello planetario non significa lasciare i Paesi sottosviluppati con bassissimi PIL procapite nella situazione attuale. Questi Paesi devono a buon diritto svilupparsi accrescendo i beni e servizi a disposizione delle popolazioni, ma senza ripercorrere pedissequamente quanto ha fatto l’Occidente e in particolare senza volerne imitare gli stili di vita, non più sostenibili anche dove da tempo si sono affermati. Inoltre, l’esigenza di sviluppo dei Paesi collocati in fondo alla classifica dei consumi impone ai Paesi sviluppati dell’Occidente un maggiore senso di responsabilità nell’utilizzo delle limitate risorse disponibili.
Scrive Irene Tinagli che la distinzione tra beni volti a soddisfare i bisogni essenziali e beni commerciali non è netta; inoltre, chiede polemicamente chi dovrebbe decidere ciò che è essenziale e quello che non lo è. Intanto non parlerei di beni commerciali ma piuttosto di quei beni volti a soddisfare bisogni indotti dalla pubblicità unitamente a quei beni status symbol che caratterizzano il consumismo. Poi penso che sarà la penuria stessa delle risorse a selezionare in larga misura i consumi. Infine se sarà necessario fare una distinzione tra i beni, altri non potrà farla che la comunità nel suo autogovernarsi democraticamente e nel proporsi una visione condivisa del bene comune.
Molti bisogni essenziali, scrive Tinagli, non si soddisfano solo con l’autosussistenza. Tutti i beni e servizi (istruzione, scuole, sanità pubblica, vaccini, medicine, trasporti e così via) non si mantengono con l’economia di sussistenza specie in Paesi privi di materie prime. Sono beni e servizi che si costruiscono con i proventi delle attività commerciali e industriali. Con la decrescita non si riducono i consumi dei soli beni voluttuari ma diminuiscono le risorse dello Stato che assicurano i citati servizi e gli investimenti per il futuro. Che cosa intende la giornalista con autosussistenza? Nessuno pensa a un ritorno a una condizione in cui gli esseri umani, come Robinson Crusoe, soddisfacevano tutti i propri bisogni da se stessi. E neppure c’è chi immagina di riproporre una totale autarchia territoriale. Certamente sarebbe assai prudente che ogni grande regione potesse far conto, particolarmente in campo agricolo ed energetico (con le energie rinnovabili), sulle risorse del proprio territorio e non dipendere dalle mutevoli disponibilità di altri Paesi sulle quali non è possibile incidere. Tuttavia, vivere in un sistema economico “stazionario” non significa porre termine agli scambi internazionali, che eventualmente potranno essere regolati da accordi tra Stati, e ancora meno significa limitare le attività commerciali e industriali. Appare, inoltre, poco fondata la preoccupazione che, senza il gettito fiscale alimentato da una vorticosa corsa dei consumi voluttuari, verrebbero meno le risorse per sostenere istruzione, ricerca, sanità pubblica, ecc. Ci sono Paesi in cui, pur in presenza di un basso PIL pro capite annuo, molto si è fatto nel campo dell’istruzione e della sanità pubblica, a fronte di paesi “ricchi” dove l’istruzione e la sanità pubbliche lasciano molto a desiderare.
Nei confronti dei critici dell’attuale tipologia di sviluppo viene mossa, in modo più o meno esplicito, l’accusa di essere reazionari (“utopisti romantici” secondo Tinagli) perché molti di loro esaltano la dimensione “locale” e guardano con favore ad alcuni aspetti del passato. Tuttavia il “locale” a cui fanno riferimento non comporta un ritorno a un mondo chiuso, ma è piuttosto il luogo in cui creare una rete di relazioni solidali volta a rafforzare il tessuto sociale e democratico, e in cui mettere in campo strumenti che permettano di fare fronte alla minore disponibilità di risorse. Inoltre, non è il caso di demonizzare ogni richiamo al passato. I cambiamenti ritenuti necessari sono in prevalenza innovazioni e in parte ritorni all’indietro, specialmente in quegli ambiti in cui sono più evidenti i guasti delle novità introdotte sotto la spinta delle logiche di mercato. Così fa Slow Food (l’esempio è di Latouche) quando, per promuovere un’alimentazione più sana e di migliore qualità, realizzando nel contempo un risparmio energetico, propone negli approvvigionamenti alimentari “più locale, più stagionale, più vegetale, più qualità”, invertendo la tendenza attuale focalizzata verso prodotti di origine animale, frutta e verdure fuori stagione di lontana provenienza e derrate standardizzate di qualità modesta.
I fautori della crescita ritengono irrazionale sul piano economico ogni ipotesi volta a privilegiare la dimensione locale. Lo sviluppo tecnologico, ci dicono, esige grandi investimenti, in primis nella ricerca e poi nella realizzazione delle nuove tecniche. Solo grandi imprese hanno questa capacità, e le grandi imprese possono prosperare solo in una società aperta, caratterizzata da un mercato di grande dimensione. Ma qui interviene il principio di sussidiarietà che assegna ogni compito e funzione al livello organizzativo più vicino alla gente e alle comunità, un livello organizzativo che sia tuttavia in grado di svolgerli adeguatamente: ciò significa che certe attività (ricerca di base, produzione di beni materiali di elevata tecnologia, servizi complessi, ecc.) continueranno ad essere di competenza dei livelli organizzativi di maggiori dimensioni. Aggiungo che, in una logica di sussidiarietà, il mantenimento in una dimensione locale di tutto ciò che in tale ambito può essere correttamente gestito (ad esempio nei servizi, da cooperative, società no-profit, volontariato ecc.) consente di ridurre al minimo il peso e il costo dell’intermediazione burocratica, esaltato invece nei grandi sistemi, aperti o meno che siano, aspetto questo non secondario in un mondo in cui le risorse saranno comunque limitate.
La decrescita danneggia i poveri, afferma Tinagli, e pertanto la decrescita è un lusso per i ricchi. Al contrario, misurarsi con i limiti dello sviluppo certamente richiede di rivedere i modi di vita, ridimensionando le attuali aspettative di tutte le categorie sociali, ma non nella stessa misura. In tempi difficili, si deve porre attenzione principalmente alle esigenze delle fasce più deboli della popolazione mentre risulta inaccettabile la continua ostentazione della ricchezza propria della fascia alta della società. E ciò non riguarda solo detentori di grandi capitali, manager, finanzieri, alti burocrati e grandi professionisti, ma anche i personaggi dello spettacolo e del mondo sportivo perché a questi, per la loro popolarità, è affidato l’ingannevole compito di rendere accettabili alla vasta massa delle persone le grandi differenze di reddito in una società che esalta il successo e la ricchezza come primi scopi di vita.
Oggi nessuno ha in tasca la ricetta per realizzare il passaggio verso un’economia stazionaria, un percorso probabilmente assai difficile e non privo di momenti critici capaci di suscitare dubbi, timori e ripensamenti. E tuttavia questo resta un percorso obbligato perché, come ha recentemente scritto Luca Mercalli su “La Stampa”, non si possono prelevare dal conto terrestre più risorse di quante i sistemi naturali siano in grado di rigenerare né immettere rifiuti e inquinanti più di quanto la biosfera sia in grado di metabolizzare.
Irene Tinagli conclude il suo articolo dicendo che la vera sfida non è eliminare o ridurre la crescita ma stabilire su quali basi costruirla e con quali criteri utilizzarla e ridistribuirla perché non tutte le crescite sono ugualmente sostenibili nel tempo. Se si parte dalla sostenibilità nel tempo di un possibile sviluppo, accantonando la crescita come valore in sé, allora forse si potranno individuare cammini largamente condivisi da percorrere con gradualità e prudenza verso un assetto stabile della vita su questo nostro unico pianeta Terra.


Luca Galeasso - 2012-09-05
Sono perfettamente d’accordo con l’interessante scritto di Beppe Ladetto. Premesso che la tutela dell’ambiente è nel nostro tempo il tema fondamentale da affrontare – senza risolvere il quale potrebbe nel prossimo futuro non esserci più motivo di arrovellarsi circa le tante importanti questioni che riguardano l’uomo – colpisce come ai primi profetici annunci del 1972 non abbia ancora fatto seguito (dopo esattamente 40 anni) la definizione di un modello di sviluppo capace di invertire le dinamiche economiche ed ambientali così ben descritte a suo tempo dal Club di Roma. Che siano in corso una decrescita economica (con riferimento al tradizionale indicatore rappresentato dal PIL) ed un contestuale peggioramento dello stato dell'ambiente è sotto gli occhi di tutti - anche di chi non crede che la decrescita debba essere il modello da perseguire - e sono convinto che analizzandone le cause non sia difficile arrivare alla conclusione che siamo di fronte alle conseguenze di decenni di “insostenibilità” del tradizionale modello di sviluppo occidentale. La questione semmai da porsi è – per dirla con Latouche – come fare in modo che l’attuale decrescita diventi “felice” e possa essere colta come opportunità di impostare un modello di sviluppo basato su nuovi stili di vita. Non penso infatti che la soluzione possa essere in un infinito miglioramento delle tecnologie e dei livelli di efficienza nello sfruttamento delle risorse (in primis quelle energetiche), né tantomeno che sia sufficiente ridurre “quantitativamente” i consumi andando verso forme di autosussistenza che manderebbero in crisi l’attuale sistema. Penso piuttosto che si debba andare verso un cambiamento “qualitativo” del modello di sviluppo, in cui vengano riscoperti valori e concetti quali la solidarietà, la gratuità, il valore del lavoro diverso da quello finalizzato alla produzione, coerentemente – come scrive Ladetto - con il principio di sussidiarietà. Se questo porti ad una crescita o una decrescita – sempre che non si scelgano indicatori diversi – potrebbe poi non essere così importante.