L’Incontro mondiale delle famiglie che si è tenuto il mese scorso a Milano pone la questione su quanto, nella nostra società, l’istituto familiare sia realmente percepito come un valore. Nel nostro Paese, al di là delle declamazioni, spesso mero esercizio retorico, poco o nulla viene fatto. Uno degli sport nazionali è pensare alla famiglia tradizionale come unico modello accettabile (il che per molti versi è vero), negando alla radice qualsiasi riconoscimento, seppur minimo alle coppie di fatto (e ciò pare un po' eccessivo). Il tutto poi in uno stucchevole gioco delle parti, in cui il mondo cattolico moderato si contrappone a quello laico progressista per poi, come sempre succede a casa nostra, lasciare che tutto continui come prima, ovvero nel disinteresse più assoluto per un'istituzione tanto esaltata a parole.
Quali dunque i punti su cui focalizzare un serio intervento a favore della famiglia? Proviamo a indicare alcune possibili piste di riflessione.
Intanto occorre rimettere in discussione una certa logica mercantilista che, da tempo, spinge per l’apertura domenicale dei negozi, a cominciare dalle grandi superfici commerciali. Questo modello va contrastato per i guasti che produce sul piano sociale, poiché il lavoro domenicale, necessario per alcuni particolari settori (forze dell'ordine, ospedali, trasporti pubblici, ecc..), non lo è certamente per la generalità dei casi, laddove verso tale direzione di marcia spingono invece motivazioni economiche totalmente sganciate dalle esigenze della persona umana.
Un secondo aspetto è il precariato. È evidente come una miglior tutela della famiglia sia strettamente connessa alla stabilità lavorativa. Come pensare che i giovani possano infatti rendersi autonomi ed essere in grado di costruire una propria famiglia se non hanno una ragionevole certezza di un posto di lavoro? Ben vengano quindi tutti i possibili incentivi per il contratto a tempo indeterminato e le penalizzazioni, fiscali e contributive delle forme atipiche, il cui uso dovrebbe essere limitato a specifiche e ben determinate causali.
Poi, terzo punto, vi è la questione fiscale. In Italia scontiamo una logica tributaria che ha sempre tenuto in conto il singolo individuo e poco o nulla i carichi familiari. A parità di reddito una famiglia con due figli è sostanzialmente tassata come un single; mentre in Francia le due situazioni sono ben differenziate grazie al quoziente familiare che divide l'imponibile per il numero dei membri della famiglia. E gli effetti, in termini di natalità (Oltralpe) e di denatalità (da noi) si vedono eccome. La laicissima Francia è assai più sensibile, in concreto, ai temi della famiglia che non la cattolicissima Italia.
Sarebbe allora davvero il caso che il dibattito sulla famiglia invece di nutrirsi di pregiudizi ideologici entrasse nel merito approntando soluzioni adeguate. Tra queste merita di essere ben soppesato il cosiddetto “fattore famiglia”. Meglio del quoziente esso infatti valorizza i carichi familiari soprattutto delle fasce medio-basse. Il quoziente, lo ricordiamo, è basato su una riduzione dell’imponibile, cioè del reddito su cui si pagano le tasse, in funzione dei componenti della famiglia. In pratica si divide il reddito in tante parti quanti sono i famigliari, per cui ad avvantaggiarsene maggiormente sono le fasce reddituali più elevate. Un reddito di 100.000 euro diviso per quattro è favorito rispetto ad uno di 50.000 suddiviso per il medesimo quoziente. Il primo paga l’imposta su 25.000 euro, risparmiandone 75.000; il secondo paga l'imposta su 12.500, risparmiandone 37.500. Viene meno cioè la progressività dello sforzo tributario.
Meglio allora concentrarsi sul fattore famiglia. Esso si basa sulla cifra media che viene spesa mensilmente per un figlio e il totale annuo rappresenta lo sconto sul reddito lordo che aumenta in relazione al numero dei figli. Siccome la cifra scontata è fissa, a trarne vantaggio sono soprattutto i redditi più bassi. Facciamo due calcoli.
La spesa per un figlio, secondo il Rapporto famiglie CISF, si aggira sui 600 euro mensili, ovvero 7.200 euro annui, che rappresentano la detrazione sul reddito. Considerando una non esatta progressione matematica con l’aumento del numero dei figli, può dirsi che con due figli il costo mensile salga a 1.000 euro, con tre a 1.300, per poi immaginare un incremento di 200 euro al mese per ogni ulteriore figlio.
Con un reddito di 50.000 euro e un figlio lo sconto sarà di 7.200 euro, e si pagheranno le tasse su 42.800 euro; con un reddito di 100.000 e analogo sconto si pagherà l’imposta su 92.800 euro. A differenza del quoziente, qui non vengono favoriti i redditi più alti.
In questo modo si garantisce equità sia rispetto alla scala dei redditi sia riguardo ai carichi familiari. È chiaro che con il fattore famiglia andranno soppresse tutte le altre detrazioni e deduzioni, disseminate nel nostro sistema fiscale che per la loro disomogeneità non garantiscono un’organica politica familiare.
Il problema è che questo modello ha un costo e oggi le risorse sono poche. È però possibile reperire risorse da diversi fronti: recupero delle somme evase, imposta patrimoniale, tassazione delle transazioni finanziarie e, magari, anche dei messaggi inviati via cellulare. Si deve, in buona sostanza, riabilitare le imposte e farne uno strumento a favore di una seria e credibile politica familiare. Altrimenti, tra denatalità e invecchiamento, la ripresa economica sarà più che mai una chimera, in una società sempre più individualista e disgregata. |