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Zaccagnini, al cuore della politica
 
di Guido Bodrato
 

I giovani possono appassionarsi alla democrazia. Lo ricordava anche Benigno Zaccagnini, segretario della DC negli anni ‘70. Oggi 17 aprile è il centenario della nascita. Ogni crisi che assume il carattere di svolta è caratterizzata da una crescente indifferenza nei confronti della politica e, in particolare, dal distacco delle giovani generazioni dai partiti.
E poiché in un sistema a suffragio universale non c’è democrazia senza i partiti, queste crisi mettono a rischio la stessa democrazia. Questo non è un fenomeno solamente italiano. Sto rileggendo un’inchiesta del 1957 sulla gioventù francese, sulla nuova ondata: la Quarta Repubblica stava naufragando contro gli scogli della guerra d’Algeria ed in quella situazione le parole dei giovani avevano il tono di una requisitoria implacabile contro politici incapaci di affrontare i veri problemi della Francia. Può apparire paradossale, ma la maggioranza dei giovani si augurava che “un uomo nuovo dal pugno di ferro” prendesse la guida del Paese. Nella realtà il generale De Gaulle si apprestava a fondare la Quinta Repubblica.

Anche in Italia il rapporto dei giovani con la politica è spesso segnato dalla polemica nei confronti di un sistema chiuso e incapace di rinnovarsi. Una politica che si esaurisce nell’amministrazione del potere, che non sa progettare una nuova società e non suscita alcuna passione, non può coinvolgere le giovani generazioni. Eppure sono soprattutto i giovani ad avere bisogno di una speranza, di una visone della vita che li spinga a partecipare al dibattito sui veri problemi, a pensare politicamente al futuro. Quando non lo possono fare, insieme all’indifferenza, cova nel loro cuore la ribellione. Eppure, se guardiamo alla presenza dei giovani nel volontariato, constatiamo che la disponibilità all’impegno sociale caratterizza anche il tempo che stiamo vivendo. Cosa c’è, dunque, che tiene lontani i giovani dalla politica? L’immagine che la politica dà di se stessa, il fatto che nelle scelte che caratterizzano i partiti e le istituzioni pubbliche, contano più gli interessi particolari che i valori, più l’ambizione personale che lo spirito di servizio. In una società caratterizzata dalla personalizzazione e dalla videocrazia, sono in declino il senso del dovere, la moralità dei comportamenti e la disponibilità a mettere al primo posto il bene comune. Quando trionfa il vitello d’oro dell’apparire e dell’avere, del consumismo e del denaro, anche i giovani sono spinti a conformarsi a questo modello, oppure – in alternativa – a scegliere la strada del rifiuto. Quando la politica si piega al primato dell’economia, al dominio del capitalismo selvaggio, il prezzo più alto delle disuguaglianze sociali lo pagano le giovani generazioni.

Tuttavia, se in una società che sta invecchiando ed appare sempre più chiusa in se stessa manca la presenza delle generazioni che sono le naturali avanguardie del cambiamento, la crisi della democrazia rappresentativa non può che farsi più acuta e infine diventare irreversibile. Negli ultimi anni il solco che separa i politici dall’uomo della strada si è allargato al punto che ormai la gente odia la casta e pare disposta a ogni avventura pur di avere una svolta nella vita del Paese. Questa riflessione mi fa ricordare ciò che ha scritto ai suoi genitori un giovane martire della Resistenza al nazifascismo, poche ore prima di essere fucilato: “Tutto questo succede perché voi un giorno non ne avete più voluto sapere”. Quel ragazzo si riferiva agli anni ’20, al tempo in cui per rifiutare lo scontro tra squadristi e bolscevichi la maggioranza degli italiani si è rifugiata nel privato. Non siamo a questo punto, e tuttavia per contrastare un declino dell’impegno che sta diventando pericoloso per la convivenza sociale, sono le diocesi a organizzare scuole di formazione politica, ad affermare che “l’impegno in politica non è un optional”, che bisogna reagire “alla tentazione di chiudersi nel privato e di scaricare sugli altri l’incombenza di prendersi cura della cosa pubblica”. D’altra parte, una svolta nella vita del Paese come quella imposta dalla globalizzazione può camminare solo sulle gambe di una nuova generazione. Ma una nuova generazione ha bisogno di un progetto, di un riferimento concreto, di un esempio cui riferirsi.

La storia può essere una bussola che aiuta a scegliere verso quale direzione camminare. Penso al tempo di Benigno Zaccagnini, che ricordava di essere sceso in campo “a causa della fede”, dell’educazione ricevuta in famiglia e nella parrocchia e che insisteva sulla necessità di considerare la politica un servizio. Zaccagnini citava spesso Paolo VI: “La politica è la più alta delle carità”. Anche negli anni ’70 la politica era segnata da una crisi profonda, la società civile era divisa e la pace sociale era minacciata dal dilagare dei conflitti sociali, la Repubblica dal terrorismo. Dopo il referendum sul divorzio, si stava chiudendo il ciclo della storia nazionale segnato dall’unità politica dei cattolici. La società appariva sempre più bloccata e travagliata da “una crisi che dava, soprattutto ai giovani, l’idea che non c’è spazio per ricevere il loro contributo”. Per Zaccagnini “occorre(va) andare al fondo degli avvenimenti per sentire cosa si agita, cosa vibra nella coscienza dei giovani. Alla nostra avvertita coscienza di democratici e di cristiani non può sfuggire il senso vero dell’inquietudine giovanile, il tormento vero e profondo dei giovani”. Bisognava recuperare gli ideali della Costituzione e il valore della solidarietà, ma soprattutto l’entusiasmo dei giovani per la democrazia.
Tra i leader politici Zaccagnini non era il più autorevole, ma è stato capace di ascoltare i giovani e di parlare loro con l’esempio. E li ha convinti a battersi per la democrazia, a rifiutare la predicazione dei cattivi maestri, per i quali “la violenza è la matrice della storia”. Il suo disinteresse per il potere, la sobrietà della sua linea politica – non nascondeva di affidarsi alla linea di Aldo Moro, che considerava il suo maestro – sono stati oggetto delle ironie dei suoi critici. Era un profeta disarmato, ma ha rilanciato il dialogo tra i partiti e il rinnovamento del suo partito. Le giovani generazioni avevano bisogno di quella umanità, di quella trasparenza e, incontrandolo nelle sezioni del partito e poi nelle piazze, hanno scoperto che una politica nuova deve fare riferimento alle coordinate fondamentali della Costituzione repubblicana e del Concilio Vaticano II, e avere profonde radici morali.

Zaccagnini era in politica dal tempo della Resistenza, eppure la sua immagine era quella di un uomo nuovo, non logorato dai compromessi e dall’esercizio del potere; la sua faccia era segnata dalle rughe della vita, ma non era consumata da una esasperata presenza televisiva. Zaccagnini sapeva che i giovani sono il cuore della politica e che “è al loro orologio che si dovrà leggere l’ora” (Charles Pèguy). Pensando ai molti problemi di quegli anni, esasperati dalla massiccia disoccupazione giovanile, dalla pressoché insuperabile difficoltà a inserire le giovani leve nel ciclo produttivo (sono riflessioni che ha ripetuto quando ha incontrato i giovani del Sermig a Torino) Zaccagnini cercava di penetrare il vero significato della contestazione giovanile, al di là di manifestazioni e di comportamenti sconcertanti. E insisteva su un punto: “Sarebbe grave non cogliere l’avvertimento compreso nel rifiuto giovanile di una società basata sull’interesse, sul consumismo, sull’arroganza e sulla prevaricazione. I giovani ci hanno insegnato che c’è qualcosa che vale molto di più, ci hanno detto che si può anche rifiutare il benessere quando significhi ingiustizia e mortificazione dei valori”.
E concludeva con una riflessione che resta di attualità e che ha le sue radici nell’ispirazione cristiana della politica: “Ecco perché adesso dico ai giovani che non ci aspettiamo, che non vogliamo che essi siano calmi e tranquilli, ma che continuino a pungolarci, a tenerci svegli, a richiamarci agli ideali che contano, alla dignità, alla vita dell’uomo in spirito e verità”. Poiché una vera rinascita morale e culturale della democrazia non può esserci senza l’irrompere nella vita del Paese di una nuova ondata, di una generazione pronta ad assumersi le proprie responsabilità.


LINO BUSCETI Chieri - 2012-04-19
Per ricordare Zaccagnini si potrebbero scrivere libri interi. Io lo voglio ricordare come uomo dottore, uomo politico, come statista generoso e sofferente. Lo ricordo come medico di Ravenna nel dopo guerra quando visitava le persone povere che non avevano i soldi per le medicine. Lui con una mano dava la ricetta e con un'altra dava i soldi per le medicine. Come politico, il suo impegno parte dalla Costituente fino alla sua morte. In un convegno a Salsomaggiore ammoniva: "la tecnologia non deve creare disoccupazione ma progresso per tutti". La crisi attuale gli dà ragione; la disoccupazione e la povertà di oggi lui la aveva previste. La sofferenza,lo strazio e la fermezza per tragedia dell'amico Aldo Moro lo hanno duramente provato, come uomo, amico e segretario politico della Democrazia Cristiana. La sua morte ha lasciato un grande vuoto a Ravenna, in Italia e nella DC. Il giorno della sepoltura ho constatato, perchè ero presente, che la piazza davanti al duomo era gremita all'inverosimile e le persone di tutte le estrazioni sociali e politiche non riuscivano a trattenere le lacrime.
Paolo Parato - 2012-04-19
Grazie Guido del ricordo di Zaccagnini. Hai ragione tu: "non era un leader autorevole" ma sapeva parlare al cuore della gente, che lo riconosceva come una persona da ascoltare e rispettare. Ci ha ridato il gusto del "far politica" di sentire la politica come servizio dopo anni amari ed esempi cattivi. Oggi ci sarebbe un gran bisogno di uno come Benigno Zaccagnini per ridare credibilità al'impegno politico. Purtroppo non lo vedo tra i nostri tanti (troppi) leader.