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Esodandi ed esodati
 
di Franco Maletti
 

Premesso che il diritto a pensione è acquisito soltanto quando si può presentare la domanda, e che fino a quel momento è un diritto “teorico”, basato sul fatto che nel frattempo rimangano immutate le condizioni di legge, chi decide per qualunque ragione di lasciare il posto di lavoro prima di quel termine commette un azzardo. L’azzardo sta nel fatto che, dal momento in cui il lavoratore lascia il posto di lavoro fino alla data in cui matura effettivamente il diritto, può soltanto sperare che la normativa durante questo periodo rimanga immutata.
La questione, quindi, è vecchia di anni. Con la sola differenza che mai nessuno prima aveva fatto una riforma del sistema pensionistico così incisiva.
Pur essendo passati alcuni anni da quando mi occupavo in modo diretto e continuativo dei problemi del lavoro, ritengo che la questione riguardi praticamente due categorie di lavoratori: quelli che decidono per ragioni personali o per soldi di andarsene (gli esodandi), e quelli dipendenti da aziende in crisi con richiesta di riduzione del personale che, anche con l’ausilio del sindacato, accettano di andarsene (gli esodati) con un incentivo economico. Salvando, con questo atto, il posto di lavoro ad altri lavoratori.
In entrambi i casi, quando qualcuno si rivolgeva a me per avere un parere (ovviamente prima di mettere la firma di accettazione), rispondevo che simile scelta era un azzardo. Un azzardo che poteva essere superato soltanto chiedendo al datore di lavoro di inserire nell’accordo di dimissioni la clausola che, qualora fossero mutate le condizioni legislative che spostavano in avanti il diritto a pensione, l’azienda si impegnava a rivedere l’accordo ed eventualmente riassumere il lavoratore per il tempo necessario alla maturazione del diritto effettivo alla pensione.
La risposta del datore di lavoro mi risulta che sia sempre ed in ogni caso NO. Perché l’incentivo all’esodo versato dall’azienda al lavoratore deve essere considerato comprensivo di questo rischio. Ora stava al lavoratore decidere. Che io sappia, quasi tutti hanno deciso di correre il rischio. Una parte (cosa sgradevole) convinti dai sindacalisti con garanzie verbali prive di valore giuridico. E alcuni di questi erano anche venuti da me accusandomi di “fare ostruzionismo”.
Su questo punto prendersela con il ministro Fornero mi sembra inappropriato e ingeneroso. Anche se capisco i problemi concreti per le migliaia di persone coinvolte e la reazione di tutti quei sindacalisti dalla coda di paglia che hanno venduto la pelle dell’orso prima del tempo e non vogliono perdere la faccia di fronte ai lavoratori.
Tanto mi pareva opportuno chiarire. Se non altro perché “esodati” sembra un termine da marziani di difficile comprensione per chi legge i giornali o ascolta i dibattiti televisivi.


Claudio Lussana - 2012-04-13
E come chiamare quelle moltitudini di persone che sono stati mandati fuori dalle scatole con 35 anni di lavoro "solo" perchè l'industriale di turno ha mangiato tutto?
Aldo Cantoni - 2012-04-07
Caro Franco, da un punto di vista giuridico formale i tuoi ragionamenti probabilmente non fanno una grinza, ma il lavoratore che è spinto ad andarsene lo fa considerandolo il male minore. Per lui, qualcuno più forte di lui gli ha cambiato le carte in tavola. Giudicando secondo diritto dovrei approfondire le reali circostanze degli accordi, ma secondo equità è un ulteriore sopruso che per giunta avviene a valle di un patto leonino.
Beppe Mila - 2012-04-06
Anche se nei termini e nell'esposizione quanto detto è ineccepibile, nella vita normale e reale è un nonsenso totale. Articoli come questi portano solo acqua a chi vuole buttare a mare decenni, direi secoli di storia, cultura e tradizioni (che poi contribuiscono al vivere civile) in nome di un falso modernismo che rende i ricchi straricchi ed i poveri più poveri. Mi sorprende che questa analisi arrivi da un "popolare" ... alla faccia. Infine una proposta: se noi lavoratori dobbiamo diventare come dice la Fornero uguali ai lavoratori serbi e vietnamiti, questo deve essere valido anche per i "padroni" che delocalizzano. In pratica, ad esempio un industriale che fabbrica articoli sportivi in Vietnam non può continuare a vivere sulla collina di Torino, alla sera andare in centro a prendere il caffè, poi a teatro. No, deve vivere in Vietnam ed alla sera stare nel patio del suo cottage in legno a farsi pungere dalle zanzare. Eh, signori la globalizzazione non può essere a senso unico, nessuno ci ha mai pensato? Una vita di società ed un tessuto sociale non si inventano, troppo comodo prendere solo il bene e non contribuirvi a crearlo, eh caspita siamo in tempo di quaresima, è venerdì santo : BASTA santificare chi chiude le fabbriche e le porta nel terzo mondo. A nessuno viene un filo di vergogna?