Giuseppe Ladetto - 2012-03-30 E’ vero che non esiste un solo modello di capitalismo. C’è ne sono almeno due: quello “americano” o “anglosassone” fondato sull’individualismo, sullo strapotere del mercato finanziario e sulla massimizzazione del profitto a breve (e non sarà certo Obama a mutarlo nella sostanza); e c’è quello “europeo”, o meglio “renano”, fondato sull’economia sociale di mercato. Qui la pluralità degli attori dell’attività economica, unitamente all’intreccio dei soggetti societari proprietari delle grandi imprese (banche, assicurazioni, fondi legati all’impresa o collegati ai sindacati), limita il prevalere del mercato finanziario consentendo alle imprese strategie economiche a lungo termine; le imprese, inoltre, sono in costante dialogo con la comunità esterna all’azienda, con i poteri regionali e locali e con la società civile.
Bisogna, però, riconoscere che oggi il modello “anglosassone” si è imposto sulla scena planetaria, e il modello “renano” è stato messo ai margini o fortemente ridimensionato. Nella Comunità europea, a partire dai suoi vertici, e nella Bce, è il modello liberista “anglosassone” ad imperare, malgrado siano più che mai evidenti i guasti che esso produce sul piano sociale ed ambientale. Anche la famosa lettera della Commissione europea all’Italia è ispirata a queste logiche liberiste e quindi anche la linea politico-economica del Governo Monti, che recepisce tali indicazioni, si caratterizza in questa direzione.
Perché il modello “americano” si è imposto? Non basta a spiegarne l’avvento il richiamo al ruolo di Reagan e della Thatcher. Luciano Gallino scrive (in Finanzcapitalismo, Einaudi) che l’ideologia neoliberale (usa il termine liberale invece di quello di liberismo perché si tratta di qualche cosa che va ben oltre la dimensione dell’economia) ha penetrato ogni ambito della società fino a modificare la natura stessa delle persone. Il suo successo è frutto di una lunga serie di fatti che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno dato vita ad una vera e propria egemonia culturale alla quale non si sono sottratti neanche i partiti progressisti i cui progetti politici sostanzialmente non si differenziano più da quelli delle forze conservatrici. Infatti ad aprire la porta alla indisturbata circolazione dei capitali e alla loro deregolamentazione non sono stati solo Reagan e la Thatcher, ma anche Mitterand, Delors, Khol e Clinton.
Il modello “renano” è proponibile oggi nel contesto del mercato globale? Seppure una tale prospettiva possa essere desiderabile, è difficile immaginare che esso, in un mercato ultracompetitivo, possa convivere con quel capitalismo di marca anglosassone che non accetta regole e in particolare quelle regole che stanno alla base dell’economia sociale di mercato. Se la globalizzazione viene considerata una condizione ineluttabile, allora non resta che piegarsi alle inevitabili conseguenze che essa comporta perché al di fuori delle logiche oggi imperanti non c’è altro modo di interpretarla e di viverla.
Ma la globalizzazione invece può essere messa in discussione perché non è il risultato di processi ineluttabili, frutto dello sviluppo tecnologico e della progressiva apertura dei mercati, ma è conseguenza di scelte del grande capitale finanziario e di connesse decisioni politiche. Ce lo dicono voci autorevoli, non riconducibili ai classici no-global o all’universo antagonista.
Giovanni Sartori, sul Corriere dell’8 gennaio 2011, ha scritto: ”Al globalismo vero e proprio non arriveremo probabilmente mai salvo che nei mercati finanziari, ma è possibile e auspicabile puntare a più ampi mercati relativamente omogenei……. Tra il policentrismo di milioni di villaggi e l'acentrismo della retorica globalistica, dobbiamo puntare su un mondo oligocentrico strutturato per aree di mercato a tenore di vita pareggiabile”.
Mario Deaglio in Postglobal (edito nel 2004 da Laterza) mette in risalto i crescenti limiti del fenomeno. Riconosce che la globalizzazione ha manifestato degli aspetti positivi ma evidenzia gli effetti negativi non previsti (le diseconomie esterne globali) sorti ben presto. Fra questi, i crescenti guasti ambientali, l’aumento dei divari di reddito e la crescita della povertà. Da fenomeno complessivamente positivo, la globalizzazione ha mostrato, già nei primi anni del Duemila, la tendenza a produrre crescenti fenomeni negativi, mentre anche i risultati positivi raggiunti minacciavano di deteriorarsi. Poi a peggiorare ulteriormente il quadro, è sopraggiunta la crisi finanziaria ed economica in cui ancora ci troviamo immersi.
Per Deaglio, sono possibili tre scenari alternativi: quello del mondo unificato sotto il potere militare, economico e culturale degli Stati Uniti d'America (garante dell’attuale processo di globalizzazione); quello dell'integrazione fra sistemi regionali che tuttavia mantengono la propria autonomia economica, politica e culturale; e quello dello scontro di civiltà immaginato da Samuel Huntington. Lo scenario più plausibile (e più positivo), per l’economista, è quello della “globalizzazione-arcipelago”, ossia l’integrazione commerciale tra paesi geograficamente prossimi e legati da vincoli storico-culturali, giacché essa presenta maggiore flessibilità e lascia spazio alle diversità. In questa prospettiva, a livello globale rimarrebbero i mercati delle materie prime e una parte della finanza, nonché le reti (trasporti, comunicazioni, internet): in tale ambito le transazioni dovrebbero essere regolate in una moneta "artificiale" corrispondente a un paniere delle valute attuali. In ogni singola "isola" (zona euro, nordamerica, nuova zona cinese, ecc.) varrebbe la libertà di commercio, che sarebbe invece sottoposta a limitazioni e accordi bilaterali tra un'isola e l'altra per quanto riguarda la gran parte dei beni di consumo e dei servizi.
Pare evidente che l’Europa potrà salvaguardare la propria autonomia culturale, politica ed economica solo se sarà in grado di dare vita ad una”isola” nella quale riproporre l’economia sociale di mercato. | ||
Rodolfo Buat - 2012-03-29 Una riflessione importante. Una sfida difficile, ma necessaria! | ||
Carlo Baviera - 2012-03-28 Bravo Guido, come sempre! A questo punto c'è anche da chiedersi se questa Europa ha ancora senso, oppure se si deve riprendere un progetto che modifichi molte delle scelte (e delle Istituzioni) realizzate. Altrimenti siamo "panati" ed avremo un centralismo di dimensioni continentali che detterà regole per strozzare lo sviluppo dei popoli: come stiamo facendo per la Grecia! |