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Ricostruiamo il ceto medio
 
di Alessandro Risso
 

Le statistiche sul reddito di noi Italiani confermano con preoccupante regolarità che guadagniamo sempre meno. Che la crisi incida sui bilanci familiari ce ne accorgiamo tutti, e i dati Eurostat, in parte corretti dall’Istat, sugli stipendi in Italia non fanno che certificare una diffusa percezione. Ma c’è un altro dato su cui riflettere, ben più inquietante: in rapporto con gli alti Paesi europei, si amplia la forbice sociale. Siamo ormai, tra gli aderenti all’UE, al primo posto per divario tra poveri e ricchi.
Per 130 anni l’Italia è cresciuta ininterrottamente riducendo le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi. Questa tendenza è proseguita fino al 1992, poi si è interrotta. Da vent’anni il nostro Paese non cresce più come prima, ma soprattutto sono aumentate le disuguaglianze. All’inizio degli anni Novanta l’1% degli italiani più ricchi deteneva il 4% del reddito totale; oggi questo 1% più ricco detiene quasi il 7%. La Banca d’Italia ha poi calcolato che il 10% più ricco della popolazione possiede oggi il 45% della ricchezza nazionale, con un marcato aumento negli ultimi vent’anni. Non ci conforta più di tanto sapere che l’Italia si inserisce in una tendenza generale: secondo il Poverty Site, un centro studi inglese sull’esclusione sociale, nell’ultimo decennio i quattro quinti della maggiore ricchezza prodotta nel mondo sono finiti nelle tasche di chi aveva già redditi superiori alla media di cui i due quinti al 10% dei più ricchi. Il 90% della popolazione si è diviso il restante 10%. Una sempre più marcata sperequazione dei redditi non può che essere negativa, in America Latina come in Africa, negli Stati Uniti come in Italia.
E dire che eravamo il Paese del ceto medio. Negli anni Settanta e Ottanta la società italiana, reduce dal lungo boom economico, si poteva rappresentare come una giara: piccola testa, i ricchi, piccolo piede, i poveri, e in mezzo una grande pancia di ceto medio. Così grande perché allora anche l’operaio era entrato a farne parte. Sì, l’operaio: che, uno dopo l’altro, aveva portato in casa gli elettrodomestici; che si era comprato l’automobile; che aveva riscattato la casa popolare e che con la liquidazione aveva comprato l’alloggetto al mare o la casa per il figlio. Un figlio che aveva fatto studiare, fino al diploma o alla laurea.
Insieme al lavoro hanno contribuito ad allargare la base del ceto medio anche le tutele dello stato sociale – pensiamo al servizio sociosanitario o al sistema pensioni – e un equilibrato sistema di retribuzioni. Il direttore dello stabilimento poteva guadagnare 4 o 5 volte lo stipendio dell’operaio. L’amministratore delegato del gruppo industriale anche 20 volte di più. Oggi i Marchionne dell’industria e della finanza, rispetto al proprio operaio o impiegato, arrivano a guadagnare anche 400 volte di più. Ci sarebbe da eccepire, non solo sul piano etico.
A rendere ancora meno accettabile tale sperequazione c’è la constatazione che le plusvalenze prodotte negli ultimi anni sono state originate non tanto da produzione di beni, ma da operazioni finanziarie. Anche i titoli spazzatura, rovina di molti, sono stati una manna per il conto in banca di pochi.
La forbice tra i redditi si è quindi ampliata in questi ultimi due decenni. Già negli anni Novanta, più marcata dopo il 2000. In parte anche per colpa dello scarso controllo al momento di introdurre l’euro: chi ha potuto farlo si è adeguato al cambio fasullo 1000 lire = 1 euro, mentre chi vive di lavoro dipendente non ha visto i salari raddoppiare allo stesso modo. Alcuni si sono arricchiti, molti si sono impoveriti. Così la società italiana della giara ha modificato la propria silouhette, diventando sempre più simile a una clessidra irregolare: con una boccia superiore più piccola, i ricchi, e una boccia inferiore grande almeno il doppio per accogliere chi è povero o è a rischio di diventarlo (il 25% degli Italiani secondo Eurostat) e chi riduce i consumi o intacca i risparmi per arrivare a fine mese (almeno un altro 40%). Dove la giara aveva la sua massima circonferenza, c’è la strozzatura della clessidra. Addio ceto medio, con reddito in crescita e sguardo speranzoso proiettato al futuro. Oggi prevalgono le preoccupazioni, per sé e per i propri figli.
Una ripresa dell’economia italiana non può che passare attraverso una politica che contribuisca a ricostruire un corposo ceto medio, impoveritosi in questi anni. Per farlo non si può prescindere da alcune sicurezze: una formazione scolastica e professionale di qualità, in grado di fornire strumenti adeguati per entrare nel mondo del lavoro; contratti non più precari, per poter impostare un progetto di famiglia; difesa dello stato sociale, per affrontare i periodi di disoccupazione, le malattie e la vecchiaia; rispetto delle regole di convivenza civile, con garanzia che la legge è davvero uguale per tutti.
E poi occorre una politica dei redditi ispirata a una maggiore eguaglianza. Se è il lavoro che dà dignità alla persona, è solo fonte di disgregazione sociale avere estremi abissali tra chi guadagna, magari in nero, meno di 5 euro l’ora, e chi – manager, professionista, calciatore o altro – intasca milioni ogni anno. Ammettiamo anche che lo Stato non possa intervenire direttamente sulle dinamiche di mercato, ma la tassazione progressiva e la lotta all’evasione fiscale sono gli strumenti per ricreare condizioni di maggiore equità sociale. Nazioni in cui la qualità della vita è più alta, come i Paesi scandinavi, sono anche quelle con meno disuguaglianza dovuta a una tassazione equa. Negli Stati Uniti, dove il fisco favorisce i ricchi, tensioni sociali e delinquenza peggiorano la vita. A meno di rinchiudersi nei santuari del lusso. Un po’ come i possidenti sudamericani fortificati nella loro fazenda, incuranti della fame dei campesinos.
Molto meglio recuperare il modello “Italia del ceto medio”.


giuseppe cicoria - 2012-03-03
Concordo con quello che hai ampiamente espresso. Aggiungo qualche considerazione. Il capitalismo di Stato (comunismo) è stato sconfitto e tutti abbiamo gioito per lasciare il monopolio ideologico al capitalismo privato. Purtroppo questo capitalismo si è gravemente ammalato e sta morendo per le gravi metastasi che lo hanno colpito. Causa: l'abbandono del controllo della massa monetaria vera e virtuale da parte dei governi. Il risultato negativo è duplice. La massa circolante del denaro è migliaia di volte superiore alle necessità connesse allo scambio di beni e servizi. Si è creata, quindi, l'illusione di ricchezza basata su debiti di creditori che causano, poi, senza controllo, lutti e rovine per la loro possibilità di spostare le ricchezze (anch'esse vere o virtuali) in un batter d'occhio. Io credo che per poter studiare un qualche piano di rilancio dell'economia reale, che consenta di dare lavoro vero, bisogna prima combattere politicamente e seriamente quegli Stati che hanno basato la formazione della loro ricchezza principale o consistente sulla speculazione finanziaria (Svizzera, Stati Uniti, Regno Unito oltre ai tanto vituperati Stati canaglia detti off shore). Il rilancio dell'economia reale, poi, non può che avvenire con l'impegno diretto dello Stato. I nostri industriali non hanno nessuna voglia di ritornare a produrre investendo i loro soldi. Tutti gli utili sono ormai all'estero nella miriade di fondi fiduciari che alimentano la speculazione che è la causa principale del trasferimento massiccio della ricchezza nelle mani di poche persone. Nonostante mi ritengo un liberale democratico, mi dispiace dover asserire che la privatizzazione di tutto non conviene all'Italia e che questa politica ha già portato alla perdita del controllo di quasi tutte le attività strategiche del Paese ancora esistenti!
Stefania PISANO - 2012-03-01
Nel 2004, per l'Istat, in Italia sono 800mila le persone in più con un reddito inferiore al 50 per cento del reddito medio nazionale, inferiore cioè a 511 euro. Il disagio fotografato a Roma dai servizi di Sant'Egidio è in linea con i dati Istat: la povertà interessa ora il ceto medio, famiglie con un'abitazione, gli anziani e, spesso solo per un periodo iniziale, gli immigrati. il vecchio ceto medio, asse portante del consenso politico nella Prima repubblica, si scopre «a rischio di poverta'». Assiste attonito a una perdita progressiva di status, a un peggioramento della posizione sociale, a una diffusione dell’incertezza che alimenta l’ansia. I suoi stipendi hanno camminato come lumache mentre i prezzi hanno corso da lepri. I Bot d’una volta li hanno traditi e basta un evento straordinario, come ad esempio la separazione coniugale, lo sfratto o la malattia grave di un congiunto — a far retrocedere alla poverta' la condizione della famiglia-tipo dell’ex ceto medio. Colletti bianchi sempre piu' grigi. Siamo arrivati anche ai colletti bianchi che fanno la fila ai punti d’ascolto degli psicologi della Caritas. E se in molti casi questo ancora non avviene, e' solo per vecchi orgogli. Accade che le mogli separate di impiegati preferiscano rivolgersi alle parrocchie per chiedere alloggio e lavoro, e nelle grandi città il fenomeno si ripete con una frequenza preoccupante. «Stanno diventando le vere centraline del cambiamento», avverte la Caritas. Studiando la mappa geografica del declino e della vulnerabilità, si scopre come «l’area maggiormente toccata non sia il Mezzogiorno ma il Nord Ovest». Se nel Sud il reddito è sicuramente più basso, nell’ex triangolo industriale una famiglia su cinque soffre di «disagio abitativo» e dell’impossibilità di risparmiare. Il ceto medio d’una volta, invece, aveva la casa di proprieta' quasi per definizione, anche se acquistata a prezzo di sacrifici e della cessione del quinto dello stipendio. I Bot, poi, dai primissimi anni Ottanta fino alla metà dei Novanta hanno assicurato a impiegati, insegnanti e artigiani un secondo stipendio. Per cento milioni di vecchie lire investite nei suoi titoli lo Stato pagava ai sottoscrittori anche 10 milioni l’anno. Tutto questo non c’è più...
franco maletti - 2012-02-28
Per combattere l'evasione fiscale, basterebbe assumere i tanti giovani (anche con laurea) che oggi sono disoccupati, triplicando o quadruplicando il numero degli attuali controllori. E non si venga a dire che lo Stato non ha i fondi per pagarli. Perchè con il loro lavoro di recupero dell'evasione fiscale il corrispondente dello stipendio se lo farebbero uscire eccome. Se il governo Monti non è ancora arrivato a questa decisione molto semplice, temo che sia perchè anche lui non è in grado di modificare la situazione attuale senza correre il rischio di cadere. E allora su chi possiamo contare?
Andrea Griseri - 2012-02-28
Grazie per la lucidità di questo articolo. Lavoro in una società legata, per un 50%, al Gruppo Fiat e faccio parte dell'Associazione Capi e Quadri. In ogni mio intervento ai Consigli che annualmente organizziamo non ho mai mancato di affrontare la questione dell'arretramento drammatico del ceto medio che un'associaziione come la nostra deve rappresentare. Sulla diseguaglianza dei redditi all'interno delle aziende: è giusto che un top manager talentuoso, creativo e sgobbone guadagni parecchio di più di un operaio o di un funzionario ma non "così tanto di più". Esiste un problema di proporzioni, di relazione fra aumento marginale della performance individuale e reddito. Purtroppo siamo tutti silenti e afasici di fronte a questo fenomeno. E' ora di cominciare ad affrontarlo.