Nel nostro Paese, invece che immaginare improbabili riforme costituzionali come l'introduzione del presidenzialismo (di cui oggi non si sente affatto il bisogno) o l'abolizione delle Province (inarrivabile esempio di demagogia a buon mercato), bisognerebbe seriamente impegnarsi in alcune modifiche delle istituzioni per migliorare il nostro sistema parlamentare.
Una di queste modifiche è il superamento del bicameralismo paritario nel quale Camera e Senato svolgono le medesime funzioni con gli stessi poteri. Si tratta invece di giungere a una differenziazione di ruoli delle due assemblee legislative come già avviene in quasi tutte le altre democrazie avanzate. Due sono i motivi per farlo.
Il primo attiene al processo di decentramento in atto nel nostro Paese, sotto la dizione, più o meno esatta, di federalismo. Questo percorso, per la verità ben lungi dall'essere giunto a compimento, chiede di individuare nello Stato stesso un organo costituzionale che ne sia un po' il compendio, come naturale sede di rappresentanza delle autonomie regionali.
Il Senato può diventare questa sede, così come del resto accade nel bicameralismo di molti altri ordinamenti europei (dalla Francia alla Germania, dalla Spagna alla Svizzera) ove una delle due assemblee legislative è in qualche modo l'emanazione dei poteri locali e del regionalismo.
Naturalmente occorre strutturare il Senato in modo da riflettere realmente la pluralità e la vasta articolazione dei territori. In questo senso la forma più idonea è quella di un'assemblea eletta con il sistema proporzionale nel segno della massima rappresentatività possibile. Nello stesso tempo bisogna dar spazio a tutti i territori in modo uguale e paritario e ciò può avvenire stabilendo un egual numero di senatori per ciascuna Regione, indipendentemente dalla sua popolazione. Si potrebbe, ad esempio, immaginare un Senato composto da centoventi membri con sei senatori per ogni Regione. Con questa parificazione tra realtà regionali più grandi e più piccole verrebbe salvaguardata nel modo più pieno la logica della rappresentanza territoriale e delle autonomie locali.
Il secondo aspetto concerne invece l'esigenza di una più spedita azione legislativa. Ed allora si può pensare che il Senato, pur intervenendo nel normale iter legislativo abbia un peso specifico diverso rispetto alla Camera dei deputati. Un testo di legge approvato a Montecitorio passerebbe a Palazzo Madama ma, in caso di disaccordo tra le due assemblee, un secondo voto di conferma della Camera metterebbe fine al percorso legislativo. Nelle leggi ordinarie i deputati avrebbero cioè l'ultima parola sia recependo, in tutto o in parte, le modifiche introdotte dal Senato, sia respingendole.
Verrebbe invece confermato l'attuale percorso paritario per le leggi costituzionali e la legislazione ordinaria in alcune specifiche materie come quella elettorale, i diritti civili, l'ordinamento giudiziario, i trattati internazionali e, ovviamente, l'assetto regionalistico. In questi casi continuerà a prevedersi la necessaria approvazione di entrambi i rami del Parlamento con le regole oggi in vigore e la doppia lettura in caso di modifiche della Costituzione.
La speciale supremazia della Camera dei deputati nelle leggi ordinarie si giustifica col fatto che solo questa assemblea dovrebbe mantenere il rapporto di fiducia con l'esecutivo, ovvero la prerogativa, tipica di qualsiasi sistema parlamentare, di dar vita o far cadere un governo.
Superare l'attuale bicameralismo paritario consentirebbe di disporre di una sede istituzionale delle autonomie locali, di accelerare il processo di formazione delle leggi e di concentrare su una sola assemblea il controllo politico del governo. In definitiva una riforma che da un lato completa il nostro decentramento e dall'altra rende più fluidi i rapporti tra il potere legislativo e quello esecutivo. Un primo possibile passo per la modernizzazione delle nostre istituzioni di cui si parla, invano, da troppi decenni. |