Stampa questo articolo
 
PD: pluralismo, non confusione
 
di Giorgio Merlo
 

Ci sono troppi elementi che denotano non un eccesso di dibattito e di confronto nel PD ma un inquietante incremento di confusione. La vicenda dello sciopero del prossimo 6 settembre indetto dalla CGIL e il capitolo della riforma elettorale dall’altro ne sono due esempi, che evidenziano come nel PD il pluralismo è interpretato come la possibilità di declinare più linee politiche e non come un contributo concreto a ricercare una sintesi dove tutti si riconoscono. Del resto, come è possibile che, dopo l’approvazione di una proposta di riforma elettorale varata dalla segreteria nazionale a votata a stragrandissima maggioranza dai gruppi parlamentari, salti fuori la pista referendaria – ovviamente diversa dalla proposta ufficiale – sostenuta da autorevoli esponenti del partito con la benedizione del sempreverde Prodi? Come è possibile essere credibili se il giorno dopo l’approvazione di un progetto elettorale studiato, discusso e poi votato si scatena una macchina referendaria e si invitano i militanti, gli iscritti e gli elettori PD a firmare un’altra proposta? La motivazione di questo voltafaccia sarebbe riassunto con la motivazione che, vista la debolezza del Parlamento e la quasi impossibilità a votare una nuova legge elettorale, tanto vale scegliere la scorciatoia referendaria. Ma allora una domanda è d’obbligo: perché limitare le proposte a due e non moltiplicarle? Se tutto è legittimo in virtù della debolezza del Parlamento, ognuno può allora ritrovarsi in un modello elettorale alternativo al “porcellum” ma che non sia banalmente funzionale al “mattarellum” e ai guasti che ha prodotto per garantire una credibile e seria governabilità del nostro sistema politico. Perché non il modello tedesco, o quello spagnolo o, meglio ancora, quello francese?
Insomma, di fronte a un palese tentativo di ridicolizzare la proposta elaborata, discussa e votata da tutto il partito, è legittimo che ognuno scelga il suo modello preferito. Il risultato? Scontato. Dal PD arriva una molteplicità di proposte con la garanzia che, ancora una volta, non ci troviamo di fronte a un sano e fecondo pluralismo, o pluralità che dir si voglia, ma a una crescente confusione dove l’unico elemento che spicca è che ognuno percorre la strada che ritiene migliore. Il tutto, ovviamente, all’insegna di nobili principi e grandi convincimenti ideali!
Di tutt’altro tenore il dibattito attorno allo sciopero generale del prossimo 6 settembre indetto dalla CGIL. Un tema che, notoriamente, non riguarda le scelte di un partito. E questo per il semplice motivo che la cultura della “cinghia di trasmissione” è ormai – almeno così speriamo – definitivamente archiviata e consegnata alla storia. Ma questo sciopero annunciato ha comunque scatenato un vespaio di polemiche che denota la strana concezione che si ha del rapporto tra politica e sindacato. O meglio, tra i partiti e il sindacato. Accanto alla stranezza – almeno così la penso io – di organizzare uno sciopero generale prima ancora che la manovra economica sia varata del tutto, è quantomeno anacronistico che si pensi di favorire l’unità sindacale nel nostro Paese organizzando scioperi in solitudine. Le riflessioni avanzate nel merito da Marini e da Fioroni sono largamente condivisibili. Quello che più stupisce è la “gestione politica” di questa mobilitazione sociale e popolare. Dal documento generazionale sul “no allo sciopero” – non si capisce perché debba riguardare solo i quarantenni e non i trentenni o i cinquantenni del PD –, all’adesione acritica alla prossima astensione dal lavoro di alcuni settori del partito per la sola motivazione che si proviene dalla medesima storia, a un atteggiamento, invece, più responsabile e più politico. E penso a ciò che ha detto al riguardo, con semplicità e buon senso, il segretario Bersani quando ha evidenziato che il PD deve essere presente in tutte le piazze, in tutti i luoghi, in tutte le sedi pubbliche dove c’è una contestazione al modello sociale e politico perseguito da questo governo di centrodestra. Non un modo, un po’ doroteo, per accontentare tutti, ma la semplice presa d’atto che non si favorisce l’unità sindacale con lo sguardo rivolto irrimediabilmente al passato o condividendo tutto ciò che dice una sola sigla sindacale. Occorre essere disponibili al confronto con tutti partendo però dalla piattaforma politica e progettuale del partito. Il tutto, però, avviene anche qui con una babele di lingue e con una pluralità di opinioni che sconfina nella confusione e nel disorientamento, anche su un tema che attiene direttamente al governo della società e al profilo riformista e democratico del partito.
Ho voluto citare solo due casi, peraltro attuali e legati alla contingenza politica. Due temi, però, che attengono direttamente all’agenda politica del Paese e all’identità stessa del Partito democratico. E su questo versante, come si suol dire, continuiamo a essere un po’ approssimativi.
Per non parlare di tutto ciò che è riconducibile ai temi dell’antipolitica dove abbondano coloro che pur di spararla più grossa degli altri sono disposti a cavalcare quel tasso di ipocrisia e di demagogia che caratterizza sempre di più alcuni settori della società italiana, opportunamente guidata e manipolata dai grandi organi di informazione che coltivano da tempo l’obiettivo di ridurre la rappresentanza democratica in nome di nobili e salvifiche motivazioni di cassa e di riduzione dei costi della politica, peraltro necessaria. Spiace rilevare che questa insopportabile carica di antipolitica vanga fatta propria da dirigenti del PD che da svariati lustri sono al vertice delle istituzioni o dei partiti di riferimento. Pensando che, forse, è sufficiente fare un po’ i demagoghi per far dimenticare la propria condizione e il proprio status.


Marco Cetini - 2011-09-04
Lucida ed inattaccabile denuncia da parte di Giorgio, in particolare mi è sembrata molto "sospetta" la fretta con cui CGIL ha indetto lo sciopero,evitando appunto di aspettare il testo definitivo del Governo, per potere quindi ricercare ipotesi di reazione unitaria con le altre sigle, o perlomeno con un loro tacito assenso; vorrei però aggiungere un' ulteriore perplessità, sulla scelta di chi ha indetto il Referendum ed insieme porre una domanda: viene evidenziato da un quotidiano che se si raggiungessero le firme ma se il referendum non venisse ammesso dalla Corte, paradossalmente verrebbe rafforzata la Legge vigente: è vero? Se così fosse si dimostrerebbe che siamo ancora una volta stati molto bravi a farci del male!
Rodolfo Buat - 2011-09-02
In effetti il tema della riforma elettorale avviene nella più totale confusione. Manca sopratutto un'analisi che identifichi i limiti delle esperienze passate sia sotto il profilo della rappresentanza sia sotto il profilo della governabilità. Si tratta di due obiettivi non raggiunti da modelli orientati a promuovere il cosiddetto sistema bipolare. Alla radice di tutto a destra e a sinistra emerge una inconfessata sfiducia nella democrazia e nella politica. Se ci fosse fiducia sarebbe spontaneo ripercorrere, con gli opportuni aggiornamenti, la strada già aperta dai Padri costituenti. Eppure sarebbe sufficiente guardare ad esperienze di Paesi che hanno vissuto la nostra stessa esperienza fascista come Spagna e Germania per identificare un modello. Al di là di tutto, e delle soluzioni possibili, sorprende la povertà e l'arroganza della discussione, anche dalle nostre parti. Per quanto riguarda invece la legge elettorale e la presunta incoerenza di comportamenti, credo che dal di fuori del Parlamento le cose siano forse un po' più chiare che viste dal di dentro. Ma davvero crediamo possibile che il Parlamento attuale, così come è composto, sia in grado di produrre una pur minima legge elettorale differente da quella attuale? Io, e come me tanti altri, credono di NO. E allora non credo che sia un reato di "lesa maestà" e tantomeno un atto incoerente affiancare un referendum alla proposta di cambiamento. Oltretutto, non credo faccia male alla democrazia un minimo di coinvolgimento popolare. E' vero che con il referendum si ottiene soltanto il "meno peggio". Ma, con i tempi che corrono, è meglio accontentarsi procedendo per gradi. A meno di volere fare la fine di quell'omino in cima alla montagna...
Franco Maletti - 2011-09-01
I Sindacati sono l'unica struttura passata indenne dalla prima alla seconda Repubblica, e oggi si stanno avviando tranquillamente verso la terza senza avere modificato nulla di sostanziale di sè. Come mai? Sono davvero così bravi? Siamo proprio sicuri che la CGIL sia ancora un "traino" e non una retroguardia ancorata a una visione del mondo del lavoro ormai obsoleta? Non dimentichiamoci che gli iscritti al sindacato, e in quanto tali lavoratori dipendenti con contratto di lavoro a tempo indeterminato, hanno un potere di condizionamento derivante dal fatto che è la loro tessera che mantiene il sindacato, e non viceversa. Nella competizione tra sigle, ognuno propaganda se stesso come meglio crede, perchè avere più iscritti significa avere più potere di rappresentanza. Peccato che milioni di altri lavoratori, non iscritti e rappresentati da nessuno, siano costretti ad assistere impotenti tra l'indifferenza di tutti alla difesa di privilegi che per loro appartengono al libro dei sogni.