In attesa dei prossimi ballottaggi, si può già dire che sembra scoccata l’ora del Partito democratico, dopo quattro anni di alterne vicende. Una nascita infausta (nella quale si è avuto il decesso della madre, il governo Prodi), un impatto duro con le urne (le politiche del 2008, le scorse regionali) per un partito che non ha mai dato sinora l’impressione di incalzare uno schieramento avversario sempre più malridotto; più attento a marcare i margini del politicamente corretto caro ai salotti che a capire e a costruire risposte alle molte contraddizioni e tensioni di cui è fatta la vita di milioni di lavoratori e l’avvenire del Paese.
Eppure, proprio alle prime elezioni dopo la mancata caduta del governo Berlusconi in seguito allo smottamento della maggioranza, si sono colti gli sperati segnali di ripresa. Il PD dimostra di essere il perno della coalizione di centrosinistra, paradossalmente anche laddove ha perso le primarie, come a Milano, e di aver avviato un recupero di voti dai suoi alleati e dall’astensionismo del suo elettorato. E si permette anche il lusso, come a Torino, di verificare dal basso il consenso e la credibilità di uno dei massimi esponenti della scena politica italiana degli ultimi vent’anni, qual è Piero Fassino: un’operazione che ora tutti dicono “facile”, ma probabilmente impossibile per molti altri leader nazionali di lungo corso, privi di un’autorevolezza paragonabile a quella del neo sindaco di Torino.
Come spesso accade in politica, l’occasione dischiude prospettive che fino a poco prima sembravano remote. Questo è successo il 15 e 16 maggio scorsi, ben oltre il risultato clamoroso del capoluogo lombardo, in cui ha pesato un diffuso scontento verso il sindaco uscente. È una tendenza generale di sfiducia dell’elettorato del PDL e della Lega. Qualcosa si è rotto nel rapporto tra quel blocco sociale centrale della società nel Nord e i partiti del centrodestra. La delusione si è trasformata, questa volta, in astensionismo.
Purtroppo però, in un sistema rigidamente bipolare qual è quello che abbiamo, bastano queste minime oscillazioni per decretare eclatanti vittorie e nette sconfitte.
Questo elemento, difficilmente controvertibile, dovrebbe suggerire al PD che se vuole proseguire sulla via della “riscossa” non può eludere il nodo del progetto politico che serve al Paese per reagire al declino e per ricollocarsi con dignità in un mondo in cui si stanno velocemente rimescolando le gerarchie economiche e politiche. È il momento di osare, di mettere in circolazione idee nuove, soprattutto in economia e nelle relazioni internazionali, per dare prospettive di lavoro ai giovani, per fare in modo che la molta ricchezza che ancora l’economia italiana è in grado di produrre non sia razziata dalla speculazione finanziaria, con i ceti lavoratori che si ritrovano con stipendi o profitti d’impresa bassi e pressione fiscale fra le più alte al mondo.
Ci vuole molto coraggio. Dominique Strauss-Kahn, a cui si può imputare – come a molti potenti di questo mondo – una passione sfrenata per le donne, ha ricevuto un trattamento così incivile per il solo fatto di aver messo in discussione, come riconosciutogli da Joseph Stiglitz, due dogmi del “mercatismo” che ha prodotto l’attuale crisi: l’assenza di controllo sul movimento dei capitali e l’obiettivo della massima flessibilità del mercato del lavoro. E per questo era anche il candidato più accreditano nei sondaggi per la vittoria alle presidenziali francesi del prossimo anno. Così il suo “killeraggio” ricompensa anche il comportamento servile (oltre che anti-italiano) del presidente Sarkozy sulla guerra di Libia.
I veri politici riformatori, i dirigenti democratici, non devono farsi illusioni: se hanno trattato in maniera così barbara il potentissimo capo del Fondo Monetario Internazionale, essi riceveranno un trattamento ancora più sprezzante da quei poteri che vampirizzano l’economia, non appena saranno capaci di adottare quelle riforme positive per le imprese, i lavoratori e le famiglie, e indigeste ai grandi poteri di certa finanza internazionale e alle loro potentissime corazzate mediatiche. Ma questa è la via, se il PD vuole recuperare credibilità e consenso nella società italiana.
Accanto alla proposta politico-programmatica, l’altro elemento che serve al PD per trovare finalmente la centralità che merita nella politica italiana e consolidare il trend positivo di queste amministrative, è quello del profilo culturale e identitario. Se la definizione di tale questione era urgente prima del voto, lo è molto di più oggi. Il rischio infatti è che ai primi fuochi di vittoria, riemerga una perniciosa convinzione ancora molto presente, quella dell’autosufficienza delle sinistre, del disconoscimento del ruolo del centro, e in esso dei Popolari.
Solo un Partito Democratico “plurale” culturalmente può ambire all’alternativa al centrodestra e costituire un argine a derive populiste. Un partito che non sia la riedizione dei DS, che non sia la sezione italiana del PSE, in cui gli eurodeputati di formazione cristiano democratica possano liberamente aderire al PPE. Occorre arrivare a rendere immediatamente evidente a ciascun elettore che, come sosteneva Massimo Cacciari, si è “democratici” e quindi non di sinistra.
Il Partito democratico che comincia a sentire concreta la possibilità di insediarsi alla guida del Paese, è di fronte ad un bivio che i Popolari e quanti sono portatori di una cultura politica di centro nel PD, non possono nascondere solo per quieto vivere nei confronti delle componenti di sinistra nel partito.
O cedere al “richiamo della foresta” del grande partito di sinistra, e quindi vanificare sul nascere le speranze di ripresa elettorale, o rompere definitivamente gli indugi e scegliere, come era nelle attese di molti amici quando si avviò il progetto del PD, un modello di partito “nazionale” improntato inevitabilmente alle esperienze dei grandi partiti popolari cristiano democratici europei (in cui per molti versi rientra anche il partito di governo in Turchia, l'AKP), in alternativa sia al modello di partito socialdemocratico che a quello liberal americanizzante. Questo implica però la definizione di alleanze coerenti e l’uscita da un asfissiante sistema elettorale a tutti i livelli istituzionali culturalmente figlio della legge Acerbo, di cui non possiamo certo essere fieri nel consesso delle principali democrazie.
Sappiamo che si tratta di una proposta che molti troveranno provocatoria nel PD. Tuttavia è da ritenersi preferibile a un lento ma progressivo abbandono delle componenti cattoliche e moderate di un partito che desse l’impressione di non avere, come invece è giusto che sia, nessuna altra forza significativa alla propria sinistra e di non sapere e non volere insediarsi al centro dell’arco delle forze politiche.
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