Grazie per la Tua lettera a cui desidero rispondere (poi non disturberò più!).
Comincio dal fondo. Se per affermare le proprie idee si deve correre il rischio di apparire opportunisti, è un rischio che corro, non prima però di aver fatto appello non tanto al Vostro buon cuore quanto alla Vostra intelligenza. Io nell'altra legislatura (già come PD!) ero Capodelegazione della Margherita al Parlamento Europeo e Vicepresidente del Gruppo liberaldemocratico (101 deputati). Dopo le elezioni del 2009 il PD ha deciso di aderire al Gruppo dei “Socialisti & Democratici” ed io sono stato eletto Vicepresidente del Gruppo (184 Deputati) e, in quanto tale, facevo parte della Direzione nazionale del partito. Quando mi è risultato chiaro che al cambiamento del nome del Gruppo non è seguita nessuna modifica sostanziale, né di linea politica né di strategia parlamentare, mi sono dimesso da tutti gli incarichi, di gruppo e di partito. Ho buone ragioni per credere che in una Regione in cui ci sono 36 Democratici tra Deputati, Senatori e Consiglieri regionali (alcuni dei quali alla quarta legislatura) se solo fossi stato tranquillo al mio posto nessuno mi avrebbe negato una rielezione, anche perché mi pare di avere un curriculum secondo a pochi. Quindi mi permetto di dire che sono molto più opportunisti quelli che sparano quotidianamente contro il PD standovi dentro “perché non ci sono alternative” che non chi sceglie, senza paracaduti, di andare in “mare aperto” per ritessere la tela con quel 40% di elettori delusi che hanno abbandonato il PD tra il 2008 e il 2010.
Sulle argomentazioni più propriamente politiche della Tua bella lettera, caro Alessandro, ritrovo molte delle osservazioni che io stesso mi sono posto in questo anno e mezzo di disagio, ma che mi conducono a risposte opposte. Il bipolarismo tendenzialmente bipartitico è morto e sepolto, con buona pace dei miei amici del MoDem che credono di poter ritornare allo “spirito del Lingotto”. Ma fuori da quello spirito non c'è – a mio giudizio – spazio per un partito come il PD. Da qui la mia decisione. Se si scompone il centrodestra; se nasce un terzo polo (che io auspico diventi un “nuovo polo”); se fallisce – com'è fallito – il tentativo di assorbire nel PD la sinistra estrema, radicale e movimentista che vuole mantenere la sua autonomia; se a questa se ne affianca un'altra che fa dell'ordine e della giustizia la sua bandiera, non c'è spazio per un plurale partito riformista e ciascuno deve tornare a costruire la propria offerta politica sulla base della propria visione che per me è la sintesi tra la cultura laico-liberale, quella cattolico-democratica, arricchite oggi da una forte vocazione ambientalista, che dal dopoguerra in poi hanno insieme compiuto tutte le scelte strategiche determinanti per l'Italia, spesso in contrasto con la sinistra comunista (NATO, Europa, SME, ecc.). Ciò, ovviamente, non esclude che una forza siffatta, in futuro, possa allearsi con questo PD che sceglie di essere un partito “di sinistra”, ma verrà il giorno in cui – magari alle prossime politiche – il PD sarà chiamato a scegliere tra l'alleanza con questa nuova forza che nascerà e quella con Vendola e Di Pietro e a quel punto subirà ulteriori contraccolpi.
Riconosco che, nel Paese e nella storia stessa della DC, ci sia una minoranza che ritiene la storia e le idee di “socialisti” e “cattolici progressisti” facilmente assimilabili tra loro; è l'idea di chi ritiene, sostanzialmente, il PD come il prodotto dell'incontro tra una certa sinistra DC, dossettiana e di matrice sindacale, con i postcomunisti. Non è mai stata questa la mia idea di PD. Andare oltre le ideologie del '900 voleva dire fare proprio il meglio che le tradizioni riformiste che hanno governato l'Occidente negli anni '90 e all'inizio di questo secolo ci hanno consegnato e che non possono essere frettolosamente archiviate come “deriva neoliberista”. Esiste un riformismo non di sinistra che oggi nel PD non riesce ad esprimersi perché il PD ha compiuto scelte diverse, coerenti con la storia della sinistra postcomunista, sia in termini di blocco sociale di riferimento che di apparati di gestione e di alimentazione del consenso. Non è né una strada condivisibile sul piano ideale né produttiva sul piano elettorale. A meno che si creda che Torino sia l'Italia, ma, si sa, l'Italia non è come Torino e richiede risposte più articolate che non quelle di rinchiudersi nei recinti delle certezze della storia della sinistra italiana.
Grazie per l'ospitalità.
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