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Le fughe dal PD: parliamone
 
di Giorgio Merlo
 

Il dibattito politico nel nostro Paese è attraversato da tali e tanti problemi – con i ben noti e drammatici avvenimenti internazionali – che quasi non pare vero assistere alla ennesima polemica interna al Partito democratico con una nuova piccola ondata di abbandoni e di allontanamenti dal partito. Un tema, questo, che continua a rendere incerto e balbettante il profilo politico e culturale del PD, anche se i casi di questi ultimi giorni non vanno certamente ingigantiti. Certo, sarebbe anche un atteggiamento debole e irresponsabile quello che porta a dire che “meno siamo e meglio stiamo” ma è indubbio che questi ripetuti “casi” denotano un malessere che prima o poi va affrontato di petto e risolto. Almeno a livello politico.
Sono due, fondamentalmente, i punti che vanno chiariti nel PD per evitare che questi continui strappi trasmettano un segnale di indebolimento del partito da un lato o anche solo di piccoli gesti trasformistici dall’altro.
Innanzitutto il capitolo della “pluralità” nel partito. Tutti sappiamo che il PD è decollato all’insegna del meticciato, cioè della necessità di superare le vecchie appartenenze politiche per riconoscersi in un progetto politico che vedeva la partecipazione attiva e feconda delle migliori culture politiche riformiste del nostro Paese, a cominciare dal patrimonio della sinistra post comunista e socialdemocratica a quella del cattolicesimo democratico e del popolarismo di ispirazione cristiana. Una pluralità che resta il postulato essenziale per poter proseguire il cammino politico inaugurato con la segreteria di Veltroni nel 2007. Se dovessero venir meno questo metodo e questa specificità, sarebbe abbastanza naturale registrare la sostanziale sconfitta del progetto originario del PD. Certo, la tesi dei Latorre di turno – e cioè quella di fare del PD un “grande partito della sinistra italiana” – è del tutto strampalata e da battere senza alcun tentennamento. Se dovesse prevalere quella tesi, che comunque non è affatto isolata, dovremmo prendere amaramente atto di una mutazione genetica del partito con la trasformazione del PD in un semplice prolungamento della storia della sinistra italiana. Ovvero, una ennesima tappa del glorioso percorso inaugurato del secondo dopoguerra dal PCI. Certo, un’esperienza politica del tutto diversa dalle vecchie appartenenze ma, se paragonata al contesto attuale, avrebbe il limite di riproporre quello scenario: e cioè, un grande partito popolare e di massa destinato a presidiare saldamente il campo dell’opposizione politica e parlamentare accompagnato dal noto slogan: nessun nemico a sinistra.
No, non è questa la prospettiva del PD. Perseguire un disegno simile comporta lo snaturamento dello stesso impianto culturale e ideale del partito. Ma allora il compito di salvaguardarne la “pluralità” è essenziale per chiunque diriga momentaneamente il PD. E questo avviene a livello nazionale come a livello locale. Certo, ci sono anche gli incarichi e le responsabilità dirigenziali che giustificano questa considerazione. Quando si rivestono incarichi prestigiosi nei gruppi parlamentari, o locali, e nella nomenklatura di partito a tutti i livelli, diventa francamente inconsistente l’accusa che c’è qualcuno che prevarica o che tende a egemonizzare la guida politica dell’intero partito. Qui si misura anche la forza dei gruppi dirigenti, nel caso specifico di quelli che provengono dalla esperienza della ex Margherita, di saper sventare un disegno politico che può farsi risucchiare dalla nostalgia del passato o dalla volontà di imporre regole e metodi estranei a un partito che non sia la semplice prosecuzione dei DS. E su questo versante si può certamente aprire un confronto interno ma non si può vivere all’insegna del vittimismo e della continua “persecuzione” da parte di alcune componenti del partito, e cioè di quelli che provengono dal campo variegato e articolato della sinistra.
In secondo luogo andrà, prima o poi, definitivamente ripensato ciò che intendiamo per “centro”. Certo, molto se non tutto, dipende sempre dal sistema elettorale che ci troviamo di fronte. Ma, per dirla con Donat-Cattin, allo “stato dei fatti” il sistema elettorale non cambia e la logica bipolare, con o senza Berlusconi, continua a essere la stella polare che orienta la dialettica politica italiana. Cosa significa, dunque, dar vita a un’ipotesi di “centro” alternativa tanto al centrodestra quanto al centrosinistra? Se così fosse, significherebbe mettere drasticamente in discussione la funzione del PD relegandolo a svolgere un ruolo di partito della sinistra italiana incapace, di fatto, di costruire una coalizione di governo. Ma, soprattutto, verrebbero a cadere gli stessi motivi fondativi che gli hanno dato vita alcuni anni fa.
Gli amici che, seppur legittimamente, si allontanano oggi dal partito già premeditavano questa scelta quando è nato il PD oppure hanno cambiato la loro posizioni cammin facendo? Delle due l’una: o ci troviamo di fronte a una mutazione genetica del Partito democratico in questi ultimi mesi – attraverso le sue scelte politiche concrete e la gestione Bersani del partito – tale da giustificare un “esodo” di coloro che provengono da un’esperienza politica moderata, o popolare, o liberal democratica o cattolico democratica, oppure si tratta di posizioni individuali, anche se significative, che col passare del tempo sono ritornate alla situazione antecedente al PD coltivando l’obiettivo di separarsi da chi arriva dalla tradizione culturale della sinistra italiana.
Qualunque sia la ragione, credo sia indispensabile affrontare laicamente la questione politica di fondo. E cioè verificare, non con tempi biblici, se la ragione sociale del Partito democratico continua a essere quella originaria. Se è così gli abbandoni e le fughe dal partito sarebbero del tutto ingiustificati e anche irresponsabili. Se, invece, il PD si accontenta con il passare del tempo di presidiare e di rappresentare tutto e solo l’orizzonte di sinistra, allora un problema esiste e va affrontato. Qualunque sia la ragione, è meglio parlarne apertamente senza ipocrisia e senza ridicoli tatticismi. Prima che sia troppo tardi.


lcanzian@libero.it - 2011-03-26
Non ci va molto a capire che per gli ex comunisti tutti coloro che arrivano al PD da altre esperienze politiche sono considerati dei residuati e quindi vanno accolti, ma tenuti ai margini della vita del partito ed esclusi da incarichi all'interno dello stesso, poiché possono modificare la monolitica concezione del partito. Basta vedere i risultati delle primarie: nessuno dei candidati di estrazione non comunista l'ha spuntata. E ciò perchè la dirigenza ex comunista chiama a far quadrato gli ex per impedire che le posizioni chiave del partito non siano assunte da persone che non siano di sangue rosso! I pochi dirigenti di estrazione non comunista che hanno qualche incarico di rilievo non sono in grado d'incidere nella vita interna al partito per cambiare in modo significativo la linea politica e democratica del partito stesso. Il loro obbiettivo è la grande sinistra che non sarà mai un partito di governo perchè contiene in sé una parte di estremismo che non gli consente di governare il paese. Quello che è sucesso a Prodi insegna. Poi uno può anche continuare a sognare...
franco maletti - 2011-03-24
Caro Gianluca Susta, tu te ne stai andando dal PD, e non dalla tua carica al Parlamento Europeo! Il "viale del tramonto" al quale io alludo deriva proprio dal fatto che tu non vedi nel PD prospettive che vanno oltre questo traguardo: ottenuto tramite alchimie che non conosco e che non voglio conoscere e che, a suo tempo, ti hanno fatto considerare più "meritevole" di altri. E' vero che ti conosco poco. ma questo deriva anche dal fatto che non ti sei mai degnato di rispondere alle mail che ti ho inviato esponendoti ragionamenti ed opinioni. Se non conosco il tuo pensiero, quindi, è anche perchè tu non lo hai mai espresso apertamente e liberamente come (finalmente!) lo fai dopo il mio commento che riconosco piuttosto provocatorio. Sappi comunque che le ragioni che motivano il tuo andartene, sono le stesse che motivano il mio rimanere. Anche io non sono soddisfatto dell'attuale PD, però in giro vedo niente di meglio e (prevedo) niente di meglio ci sarà fino a quando in Italia non si potrà tornare al rispetto della Costituzione e delle regole democratiche.
gianluca susta - 2011-03-23
Non conosco Franco Maletti e non so quale "momento di gloria" abbia mai vissuto io prima di ora per non accettare il presente "viale del tramonto". Probabilmente Maletti non sa di chi e di che parla. Se io ho mai vissuto un momento di gloria è questo! Nella mia vita ho prevalentemente fatto l'amministratore locale; ora invece sono al Parlamento Europeo. Altre glorie non ne ho avute, salvo che tale si voglia considerare l'anno di vicepresidenza della Regione che fu riconosciuto a chi era stato per 12 anni Sindaco di una città capoluogo del Piemonte "due". Ma queste meschinità vanno messe nel conto della polemica politica. Quello che dice Giorgio va invece meditato, ma non si risolve il problema sfuggendolo. Capisco che si debba difendere una segreteria regionale "nostra" che ha fatto quel che poteva per garantire condizioni di vivibilità nel partito piemontese, chiaramente egemonizzato dalla sinistra. Ma che la mutazione genetica del PD (in quanto partito nazionale) sia avvenuta dopo Veltroni mi pare addirittura lapalissiana.Tra le tante cito l'adesione ormai istituzionalizzata (seppur in forme ancora coperte da un velo di ambigua ipocrisia) al Partito Socialista Europeo; i finanziamenti dati tramite il Gruppo parlamentare europeo socialista di cui facciamo parte all'Internazionale socialista; l'alleanza strategica (al centro come in periferia) con SEL e IDV; il rapporto preferenziale con la CGIL e, in parte, anche con la FIOM; la subalternità al giustizialismo dilagante. Devo continuare? Dov'è il "metodo" democratico che ha caratterizzato quasi 50 anni di guida DC del Paese? Liturgie, linguaggi, comportamenti, tentazioni egemoniche, a Roma come a Torino, sono tutte da ascrivere a una storia postcomunista privatasi della grandezza del pensiero che il PCI sapeva esprimere. Saranno, caro Giorgio, "posizioni individuali" come dici tu! Per carità! A me sembra che a questa conclusione possa arrivare solo chi vive la dimensione del ceto politico ormai in maniera così assorbente che non si è accorto che il disagio ha provocato la fuga del 40% dell'elettorato che è stato del PD. Ma se anche il "nostro" fosse solo il 20% si tratta di una forza di milioni di elettori che hanno capito in questi anni che si può essere alleati della sinistra, ma che non si può far parte dello stesso partito. Queste sono le motivazioni del disagio che ha portato alla nostra decisione, disagio che è assai più diffuso della punta di iceberg che noi rappresentiamo. Il PD è nato per rappresentare questo bipolarismo. Vive in funzione di questo bipolarismo; è destinato a strapparsi" al di fuori di questo quadro bipolare. La classe dirigente del PD lo sa benissimo, ma non può mettere in discussione tutto ciò perché vorrebbe dire mettere in discussione la scelta affrettata - e quindi l'errore - che ha condotto al PD quattro anni fa. Se ho qualcosa da rimproverarmi è di essere stato tra coloro che si erano illusi di poter fare un partito davvero democratico, plurale e riformista diverso da un grande partito socialista europeo. Ho sbagliato! Ed è giusto che, quindi, ne tragga le conseguenze e mi metta in discussione. I "paracaduti" e gli "attendismi" in attesa che "qualcuno" (magari uno come me?) prepari un'altra casa fuori li lascio a chi nella vita non ha altre alternative che la politica. Non è il mio caso. Per fortuna.
Giovanni de Witt - 2011-03-23
Quello che mi sembra manchi in assoluto nel PD è un momento di discussione politica sui contenuti programmatici (un congresso a tesi?). Per chi viene da stagioni di dibattito collettivo sui contenuti (i programmi politici non finiscono con gli elaborati dei centri studi), la presente vita di partito può sembrare un po' asfittica, con pochi spazi anche per una articolata leadership.
- 2011-03-23
Assolutamente vero e condivisibile. Va però accelerato il cambio di classe dirigente del partito: troppa storia alle spalle non aiuta l'affermarsi di una mentalità adeguata alla sfida per un partito nuovo. Norberto Julini
Franco Maletti - 2011-03-23
I Susta e i Rutelli che se ne sono andati (ma anche i Veltroni e i D'Alema che restano), sono quelli che non riescono ad accettare che dopo "il personale momento di gloria", ci possa essere il naturale viale del tramonto. La grandezza delle persone si misura nella loro capacità di rendersi "diversamente utili" senza rimanere necessariamente protagonisti. Ma, per fare questo, bisognerebbe appunto essere grandi. Anche in senso altruistico.