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Ora si deve redistribuire il lavoro

 
di Stefano Lepri
 

In questa legislatura abbiamo discusso su come, attraverso forme di redistribuzione del lavoro, si possa aumentare l'occupazione. Queste idee non sono diventate leggi poiché è prevalsa l'esigenza di far ripartire l'economia. Si è detto: prima preoccupiamoci di allargare la torta, poi del modo in cui tagliarla. Si è poi aggiunta la volontà di escludere soluzioni inefficaci. Ad esempio, la scelta francese delle 35 ore è stata modificata dopo pochi anni, in quanto ha determinato un aumento del costo orario del lavoro e quindi ridotto la competitività delle imprese. L'Italia non ha sviluppato una politica per redistribuire le ore lavorate. Il part-time non è mai decollato, soprattutto per l'assenza di veri vantaggi per le imprese e i lavoratori. Lo straordinario è quasi detassato, con un'imposta sostitutiva secca del 10%. Il risultato è che il numero di ore lavorate mensili pro capite risulta maggiore che in quasi tutti gli altri Paesi europei.
 
La questione è sempre la stessa: possiamo trovare forme di redistribuzione del lavoro che non penalizzino la competitività, non gravino troppo sui bilanci dello Stato e non riducano le retribuzioni ordinarie di chi oggi già lavora? Ora che è ripartita l’economia si può provare a dare risposte, con tre proposte da approfondire.
1) Oltre le trenta ore settimanali il lavoro costi di più. Si introduca, per tutti i soli nuovi assunti, un supplemento di oneri sulle ore lavorate superiore alle trenta settimanali. Sarà così preferibile per le imprese scegliere contratti per i nuovi assunti con orario limitato, senza impedire assunzioni full time. In forma complementare, l’annunciata intenzione di abbassare strutturalmente il costo del lavoro a tempo indeterminato, cioè gli oneri contributivi, dovrebbe essere prevista per le sole prime trenta ore settimanali.
2) Disincentiviamo il lavoro straordinario adottando il modello tedesco, dove non possono essere superate le otto ore di lavoro al giorno per cinque giorni a settimana. In alcuni casi si può arrivare alle dieci ore al giorno, ma solo se in un arco di sei mesi le ore lavorate medie rimangono sempre otto. L’eventuale lavoro straordinario aggiuntivo a questa media semestrale rimarrebbe consentito, ma con un alto prelievo fiscale. Queste prime due proposte, tra loro legate, avrebbero il pregio di non obbligare ma di favorire l’impiego di un maggior numero di lavoratori, a parità di costo orario del lavoro e con modesti oneri per le imprese, compensabili con riduzioni generalizzate del cuneo fiscale.
3) Nel pubblico impiego non si pone il problema della competizione globale. Si può anzi ritenere che un orario ridotto possa assicurare maggiore produttività. Si propone quindi – a eccezione delle professioni in cui è necessario il tempo pieno e della dirigenza – che le nuove assunzioni qui avvengano con la prospettiva di lavorare, senza possibilità di incremento futuro di orario, per 24 o 30 ore settimanali. Tale proposta potrebbe essere estesa alle imprese fornitrici della pubblica amministrazione, limitatamente alle commesse acquistate. Il part-time diventi prassi nel pubblico impiego; il lavoro costi di più oltre le trenta ore settimanali; si disincentivi il lavoro straordinario.
 
Sono suggestioni che meritano considerazione, specie in queste ore in cui ci si confronta su nuove proposte per i programmi elettorali. Non si tratta solo (ed è moltissimo) di aumentare il numero di lavoratori. C’è anche l’esigenza di rispondere alle attese di un nuovo equilibrio tra tempi di vita e di lavoro e tra impegno nell’economia formale e in quella informale. Un nuovo equilibrio, più a misura d’uomo.
 
Lettera al Direttore di “Avvenire”, pubblicata il 9 gennaio 2018.
 


Andrea Griseri - 2018-01-19
Credo che nel mondo dell'impresa privata sarà molto difficile la penetrazione delle idee concernenti la riduzione dell'orario di lavoro. I cosiddetti quadri, personale direttivo di livello medio o a elevata specializzazione non godono di alcuna remunerazione per le ore di overworking (questa è una regola che caratterizza pressoché la totalità dei contratti collettivi) ma spesso sono indotti a lavorare per un numero di ore settimanali ben superiore alle 40. Secondo una vecchia divisa mentale la disponibilità a "stare in ufficio fino a tardi" (magari anche in assenza di una vera necessità) è sinonimo di attaccamento al lavoro, di fedeltà all'azienda (per la verità oggi in questo mondo sempre più liquido il sano attaccamento a quell'insieme di valori condivisi e collettivi in cui si risolveva la "fedeltà aziendale" è sovente surrogato dalla fedeltà opportunistica e individualistica al capo di turno). Si comprende anche la difficoltà con cui i principi dello smart working, la possibilità di esercitare dalla propria abitazione una porzione significativa della propria attività si stanno facendo strada. Eppure questa sarebbe una soluzione importante: numerose mansioni, anche direttive, potrebbero essere svolta da casa (o da qualsiasi altro luogo) riducendo tra l'altro tempi e costi di trasporto e relative emissioni di CO2. La tecnologia grazie al cielo ci aiuta. Ma, ripeto, è necessario promuovere, soprattutto nel privato, un deciso salto di qualità culturale. Molti top manager che predicano innovazione e dileggiano l'arretratezza di tutto ciò che appartiene alla sfera pubblica (ogni riferimento a persone e fatti reali è naturalmente casuale....) si comportano a casa loro come accigliati e arcigni reazionari.
franco maletti - 2018-01-17
Vorrei rassicurare Ciravegna (e Lepri): io non sono contrario alla riduzione generalizzata dell'orario di lavoro, anche se mi sembra difficile da spiegare perchè questo debba riguardare soltanto i nuovi assunti e non tutti. Rilevando che, realisticamente, dovranno forzatamente esserci delle eccezioni riguardanti specializzazioni particolari (ad esempio i chirurghi). Ritengo tuttavia che questa riduzione sia già in atto, attraverso assunzioni part time in maniera abnorme da parte dei datori di lavoro, ed in tal misura da produrre almeno in parte quel "milione di posti di lavoro in più", esibiti da qualcuno e a mio parere in modo improprio. Se, per fare un esempio, due nuovi posti di lavoro a 40 ore, vengono coperti da assunzioni part time nel seguente modo: uno a 20 ore, due a 15 ore, e tre a 10 ore, ecco che i livelli occupazionali vengono TRIPLICATI (oltretutto con il vantaggio che saranno 6 persone invece di 2 a godere degli 80 euro netti mensili elargiti dallo Stato). Ora, il mio "riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parte", vuole solo significare che tale riduzione è già ampiamente in atto. Di conseguenza ho proposto, e continuo a proporre, l'utilizzo di quei dieci miliardi annui oggi corrisposti attraverso gli 80 euro mensili dallo Stato in modo più utile (e sul come non sto a ripetermi), col il vantaggio che il tutto avverrebbe senza comportare per lo Stato oneri aggiuntivi.
Daniele Ciravegna - 2018-01-15
Come "incipit", non lascerei affatto a parte la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro, come dice Maletti! Quindi un piccolo appunto all'articolo di Stefano Lepri, che ha, se non altro, il coraggio di prendere in esame la questione predetta, diversamente da quanto fanno pressoché tutti i politici sia di maggioranza sia di minoranza: la riduzione dell'orario di lavoro, perdurata per 200 anni dall'inizio dell Rivoluzione industriale e interrotta con l'inizio della Seconda Globalizzazione, affrontata con l'obiettivo di riuscire a competere in termini di prezzo, non essendo capaci di affrontarla in termini di competitività di qualità. L'appunto è che si possa affrontare questa questione in fase di torta crescente, mentre non lo si potrebbe fare a torta immutata o decrescente; e no: la redistribuzione del lavoro fra le persone è strumento precipuo per il mantenimento della coesione sociale quando la torta si sta riducendo! Il bene comune richiede che, in periodo di crisi produttiva, non ci sia chi mantenga la propria posizione e chi perda tutto; è indispensabile una redistribuzione che eviti la trasformazione di crisi produttiva in povertà, anche solo per una minoranza di persone. E veniamo alle proposte avanzate da Stefano: 1. Non fasciamoci la testa nei confronti del peggioramennto della competitività in termini di prezzo. La partita della sopravvivenza o, meglio, dello sviluppo di un'economia sta nella capacità di tenere e vincere la competizione internazionale in termini di qualità; assai meno di tenete e vincere la competizione in termini di prezzo! 2. Rendere più costoso il lavoro impiegato dall'impresa, in presenza di durate eccedenti, ad esempio le 30 ore settimanali e rendere più costoso l'impiego del lavoro straordinario. D'accordo, ma preferirei che questo risultasse, in primis, da contratti collettivi nazionali piuttosto che da provvedimenti legislativi che piovono dall'alto; comunque la variabile da far agire non dovrebbe essere tanto il prelievo fiscale quanto piuttosto gli oneri contributivi. 3. Nel terzo punto traspare il concetto che l'occupazione che si può direttamente creare attraverso la P. A. non possa essere che di tipo assistenziale. Forse è questo il motivo per cui non è stata presa in considerazione, da parte di uomini politici, una proposta, avanzata più di anno fa da un gruppo di economisti e sociologi piemontesi, di programmare l'assunzione a tempo indeterminato di all'incirca 1 milione di dipendenti pubblici di medio-alta qualificazione, in grado di produrre servizi pubblici di elevata qualità in settori in cui c'è carenza di erogazione (sanità, giustizia, scuola, tutela e conservazione del territorio e del patrimonio artistico-culturale, infrastrutture di trasporto, di comunicazione, di elaborazione dati e simili). Un progetto del genere attiverebbe una politica attiva capace d'incidere significativamente sull'occupazione e sull'offerta aggregata di beni - stimolata dalla disponibilità dei servizi di cui c'è carenza - e sulla domanda aggregata, per effetto del moltiplicatore attivato dall'aumento della spesa pubblica per produzione di consumi e investimenti pubblici. Il finanziamento di quest'ultima potrebbe essere reperito con una specifica imposta patrimoniale di scopo o anche in disavanzo, qualora si stimasse la presenza di una forte deficienza di domanda aggregata da colmare. Si tratterebbe di un'imposta patrimoniale o di un disavanzo temporanei: il tempo necessario perché il prelevamento fiscale ordinario attivato dal progetto (sui redditi dei dipendenti e sulla produzione di beni che andrà moltiplicandosi) non arrivi a coprire tutta la spesa per i neo dipendenti pubblici, che continuerà fino al pensionamento degli stessi. Che cosa c'è che non funziona nel progetto? Lo chiedo anche al sen. Lepri, sperando di avere risposta.
franco maletti - 2018-01-11
Tutti i dati stanno a dimostrare (e con questo rispondo anche all'ottimo articolo di Beppe Ladetto) che la vita lavorativa, in modo sempre più accentuato, sarà a "segmenti": ovvero una alternanza più o meno accentuata di periodi di lavoro con altri periodi durante i quali, da disoccupati, ci si dovrà "aggiornare" rispetto alle nuove esigenze del mercato. Anzi, probabilmente, più sarà specialistico il proprio lavoro, più sarà tendenzialmente accentuata questa alternanza. Ora, riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parte, ritengo sia necessario affrontare per tempo questa nuova realtà che abbiamo davanti e che molti chiamano impropriamente "precarizzazione del lavoro". Se (e qui ritorno al mio ultimo articolo) gli attuali 80 euro netti mensili corrisposti a chi lavora e corrispondenti a non meno di dieci miliardi di euro all'anno, venissero utilizzati per creare una struttura in grado di mettere in relazione le PMI tra loro, creando una rete che coinvolge la scuola e la formazione ed i lavoratori in cerca di occupazione (lavoratori finanziati durante i periodi di disoccupazione con parte di quei dieci miliardi risparmiati) oltre ad evitare tensioni sociali si potrebbe contribuire a far crescere la nostra economia. Per essere ancora più chiaro: se gli ottanta euro venissero "congelati" attraverso una forma di risparmio forzoso, per poi essere utilizzati durante il periodo di disoccupazione del lavoratore come se fossero un prolungamento del suo stipendio (in cambio però lui dovrà rispecializzarsi) credo che si risolverebbero molti problemi. Perché, in definitiva, quello che al lavoratore preme non è tanto la garanzia del lavoro "per sempre" quanto la garanzia di una entrata economica costante.