Stampa questo articolo
 

Tempi duri per la liberaldemocrazia

 
di Giuseppe Ladetto
 

Qualche tempo fa, lo storico Giovanni Sabbatucci, in un articolo su "La Stampa", ha descritto la situazione critica in cui è venuta a trovarsi la liberaldemocrazia, sempre meno attrezzata ad affrontare il malessere che permea la società occidentale. Egli traccia un parallelo tra le turbolenze odierne seguite alla crisi scoppiata nel 2007-2008 e non ancora terminata, e quella del 1929. Ancorché le due crisi siano diverse per le cause che le hanno originate, per i metodi usati per combatterle e per le conseguenze provocate, hanno però un tratto in comune: man mano che si protraggono e ne risultano incrinate le aspettative di benessere dei cittadini, si riduce la fiducia di questi ultimi nelle istituzioni democratiche e rappresentative, e in particolare nella democrazia liberale.
La liberaldemocrazia, scrive Sabbatucci, è caratterizzata da suffragio universale e rappresentanza parlamentare, combinati con la distinzione fra i poteri, dal rispetto dei diritti fondamentali e (aggiungo io) dall’economia di mercato. Essa non è mai stata, salvo che nei Paesi anglosassoni, oggetto di adesione fideistica e di rappresentazione oleografica. Infatti, la liberaldemocrazia non ha mai promesso il paradiso in terra, ma si è affermata come il regno della normalità e del pragmatismo, con un sistema di regole volto a sostituire il conflitto armato per il potere con la pacifica rappresentazione del conflitto attraverso lo strumento delle libere elezioni. Ma la sua carenza di valori forti e l’inevitabile permeabilità ai fenomeni corruttivi hanno suscitato delusione e talora reazioni violente alle quali, nel secondo dopoguerra, essa è sopravvissuta grazie al benessere diffuso e al progresso materiale.
In tempi di crisi economica, prosegue l’editorialista, i cittadini tendono ad attribuire la responsabilità del loro disagio non solo ai partiti e ai governi, ma anche alle istituzioni ritenute troppo deboli e incapaci di tutelare i loro valori e i loro interessi. In tali situazioni, si comincia a guardare agli esempi di Stati autoritari che promettono ordine ed efficienza. Così è accaduto negli anni Trenta. La storia non si ripete mai negli stessi termini, anche perché l’Europa ha conosciuto quei regimi – fascismo, nazismo, comunismo – tutti finiti male. Ciò non esclude che delusi e pessimisti possano rivolgersi a modelli autoritari più blandi (tipo Cina e Russia) considerati di successo, oppure che cerchino soluzioni diverse in movimenti di tipo nuovo accomunati dalla contestazione delle forme tradizionali di rappresentanza e dalla tendenza a proporre soluzioni semplicistiche a problemi complessi. Comunque sia, per la liberademocrazia si annunciano tempi difficili.
Il possibile emergere di una deriva autoritaria in Europa è un argomento sul quale, al momento, non mi sento in grado di esprimere un’opinione. Sarebbe interessante un dibattito in materia.
 
Veniamo invece a quei movimenti genericamente definiti populisti che, in conflitto con l’establishment, si fanno portatori di nuovi indirizzi, ma che Sabbatucci ritiene inadeguati poiché tendono a proporre soluzioni semplicistiche a problemi complessi. È questo un giudizio diffuso fra i commentatori politici dei grandi quotidiani. Secondo Massimo Cacciari, i populisti si limitano a riflettere le domande e i desideri del popolo senza definire obiettivi possibili e senza indicare i mezzi per raggiungerli. In un dibattito televisivo, Beppe Severgnini, editorialista del “Corriere della sera”, ha detto che i populisti sono simili a un medico che talora sa fare diagnosi giuste, ma non praticare terapie adeguate.
Tutto vero, ma  i populisti sono i soli a non saper proporre terapie adeguate ai mali odierni?
In materia, occorrerebbe chiedersi se gli esponenti di quel mondo politico e di pensiero sostenuti dai principali media, come il “Corriere della sera”, facciano diagnosi corrette e propongano terapie valide. Mi pare che, pur riconoscendo a fatica i guasti prodotti dal mercato globale e dalla feroce competizione che lo caratterizza, costoro non sappiano far altro che proporre in dosi maggiori gli stessi ingredienti delle ricette praticate sino ad ora, e che hanno condotto alla deludente situazione attuale: più mercato, più consumi, più concorrenza, più crescita, più globalizzazione.
Se deludono sia gli esponenti della politica tradizionale sia i nuovi venuti alla ribalta, probabilmente ciò accade perché nessuno sa bene che cosa occorra fare per affrontare i nuovi problemi che la globalizzazione ha prodotto con l’accelerazione dei processi in corso, dalle modificazioni climatiche ai movimenti migratori.
Forse è la società attuale ad essere troppo complessa e quindi ingestibile.
La semplificazione di tale complessità, non governabile, generatrice di diseconomie e di esternalità negative, sarebbe un percorso da esplorare. Ma ciò comporta la revisione del credo dominante che caratterizza la modernità nella sua fase estrema, a partire dai suoi mantra: il rifiuto di ogni limite, il correre sempre più veloci, il dominio su una natura avvertita come ostacolo a un desiderio di onnipotenza, la fiducia cieca in una tecnologia dalla quale ci si attende la liberazione dell’uomo da ogni gravame (a partire dal lavoro inteso come sola fatica) e vincolo (compresi quelli di ordine biologico).
Continuando su questa strada, tuttavia, stiamo dando corpo alla condizione descritta da Anthony Giddens, che ho già avuto modo di citare ma repetita iuvant. Vivere nella modernità attuale, scrive il sociologo, è come viaggiare su un bisonte della strada lanciato in una corsa folle. La fine della corsa potrebbe concludersi con esiti drammatici. lasciando dietro di sé un “agglomerato di comunità sociali decimate e traumatizzate” o addirittura una “repubblica di insetti ed erbe”.


Domenico Accorinti - 2017-10-03
Concordo appieno con l'analisi e con le conclusioni di Ladetto. Un'osservazione pragmatica: forse per raggiungere il meno peggio la ricetta (che o si ha nel DNA o non c'è niente da fare) è quella che ci insegnano popoli ordinati e solidali, come i giapponesi: dal 1997 non crescono ma se la cavano lo stesso non male. Insomma hanno inventato la "decrescita sostenibile". Anche i tedeschi, pur'essi ordinati solidali ed efficienti, sembrano, però in un contesto di crescita (quanto non drogata o a spese di terzi?), aver trovato un certo apparente (e forse precario) equilibrio sociale.
Giuseppe Davicino - 2017-09-06
Ladetto pone, con la consueta chiarezza, un tema oggi centrale per la politica: quanto un'economia spogliatrice della classe media e che trasferisce e concentra, oltre ogni limite, risorse da lavoratori, famiglie, imprese, settore pubblico nelle mani di pochissime élite globali, possa esser compatibile con la democrazia. Alla politica, nel suo insieme, e a gruppi dirigenti non cooptati dall'alto (se ci sono ancora) ma espressione degli interessi popolari, il compito storico di ridefinire un nuovo equilibrio tra questi poteri economico-finanziari globali e la democrazia, sapendo che il tempo non è una variabile indipendente.
franco maletti - 2017-09-05
A, problemi sempre più complessi, come quelli attuali, è sempre più difficile dare risposte semplici e comprensibili. Di ciò ne approfittano, con alterne fortune, gli "sciacalli della politica", in quanto (e le loro battaglie contro i migranti lo dimostrano) sanno molto bene una cosa sola: essere crudeli è molto più facile dell'essere umani, se non altro perchè l'avere studiato non serve. Dai problemi evidenziati da Beppe Ladetto non credo sia possibile uscirne senza una riconciliazione ampia: con Dio, con il genere umano, con l'ambiente. Ma, contro gli "sciacalli", nessuno deve tirarsi indietro: perchè ci vuole soprattutto un paziente lavoro di cultura.
giuseppe cicoria - 2017-09-04
mi sembra che un rallentamento o addirittura una modesta "decrescita felice" ci renderebbe meno ansiosi ed insicuri
Leonello Mosole - 2017-09-04
Nutro qualche dubbio (che provo ad esplicitare brevemente) su questa analisi. Osservo che nel 1929, con una crisi molto più grave dell'attuale, gli americani non hanno cercato soluzioni autoritarie: è la democrazia americana che ha dato risposte forti e coerenti con la situazione. In Europa le soluzioni autoritarie erano già in atto e non credo fossero dovute solo alla crisi economica. In quanto alla Russia direi che, usciti da una dittatura feroce, i russi sono passati ad un regime un po' mafioso un po' fascista che ha consentito a pochi di arricchirsi e ad alcuni di stare bene ma non mi pare che sia una prospettiva all'orizzonte. Idem per la Cina. In quanto ai populismi, tutto quello che è detto è condivisibile. Aggiungerei, la mancanza del senso di appartenenza sempre più diffuso ovvero non sentirsi di appartenere a una comunità, non sentirsi "cittadini" e, per finire, il potere dei padroni della "rete", in grado di influenzare opinioni, mercati, acquisti e di far diventare ciascuno di noi delle monadi chiuse nel proprio guscio, con amici ovunque nella rete ma incapaci di rispondere a un saluto incontrando una persona.