Pubblichiamo l'intervento che Guido Bodrato, presidente emerito dei Popolari piemontesi, ha tenuto lo scorso 21 luglio al convegno su "Il futuro del riformismo" organizzato a Torino dal periodico Nuovasocietà, con la partecipazione di numerosi esponenti delle varie culture e forze politiche del centrosinistra presenti e operanti nella realtà subalpina.
Questo incontro ha come tema il riformismo. In realtà riguarda il futuro della sinistra e del PD, perno del centrosinistra. Io sono un elettore del PD, ma non un iscritto a questo partito poiché non ho condiviso la decisione di dissolvere il Partito Popolare nella Margherita, e poi di dare vita ad un conglomerato che ha fatto parlare di un "amalgama mal riuscito".
I lettori di Nuovasocietà conoscono le mie opinioni sulle riforme istituzionali ed elettorali, e sanno perchè ho votato No in occasione del referendum del 4 dicembre 2016. Sanno anche cosa penso delle speranze e delle delusioni cui ci riferiamo quando parliamo del partito di Matteo Renzi.
“Nella vita – secondo Croce – si scrive un libro e poi lo si riscrive cento volte”: penso lo si possa dire anche delle mie riflessioni sulla crisi della democrazia rappresentativa e sul rischio di una deriva autoritaria. Per comprendere seguendo quale via un cattolico democratico possa condividere una strategia riformista, basta riflettere – come ha fatto il professor Brunatti – sulla politica di De Gasperi e sul “centro che guarda a sinistra”. Dagli anni della Resistenza, della ricostruzione e della rinascita democratica, molte cose sono cambiate nel panorama italiano ed europeo, soprattutto a sinistra. Con la globalizzazione e il declino della società fordista, i cambiamenti si sono fatti più profondi e più veloci, anche nella politica. Dobbiamo tenerlo presente, specie quando discutiamo della politica riformista e siamo preoccupati per l'egemonia conquistata dal pensiero liberista.
Per rispettare la necessaria brevità degli interventi, mi limiterò ad alcune delle molte questioni di cui abbiamo discusso questa sera. Sull'astensionismo, Alfio Mastropaolo ha scritto di un “grande ammutinamento elettorale”: non possiamo ignorare che in vent'anni l'astensione è passata dal 20/25 per cento al 45/50 per cento degli elettori. Una democrazia non può vivere senza popolo.
Questo crollo della partecipazione esprime una forte critica alla Seconda Repubblica: il “partito del rifiuto” è in qualche modo l'avanguardia del “populismo” che sta travolgendo la democrazia parlamentare, ed esprime anche lo smottamento elettorale di una sinistra (e di una classe operaia) rimasta senza riferimento politico.
In questo contesto si colloca una riflessione sull'Ulivo, promosso nella convinzione che fossero sufficiente la personalizzazione della politica, l'elezione diretta del sindaco e una riforma maggioritaria, per reagire alla crisi della “repubblica dei partiti“ e alla “deriva partitocratica” degli Anni '80.
In realtà le elezioni primarie e le regole maggioritarie non hanno reso più trasparente la contesa politica e più stabili i governi. Il declino della forma partito (e della centralità della DC) ha radicalizzato una contesa elettorale affidata al consenso mediatico, alla politica spettacolo...
È stato un errore pensare che milioni di elettori post-democristiani e post-comunisti fossero pronti a convergere su una nuova proposta, solo perchè sottoscritta dalla “nomenclatura” di partiti ormai avviati al tramonto, dopo la fine del Muro e dopo Tangentopoli. Eppure i promotori dell'Ulivo erano convinti che questa nuova “forma politica” doveva ormai inseguire gli elettori, che avevano già scelto “quella strada”. Così la fine dei partiti di massa ha favorito la discesa in campo di Berlusconi, la sua cavalcata televisiva, come punto di riferimento degli elettori “moderati”.
Si poteva fondare su questo “clivage” un sistema bipolare capace di costringere gli elettori a stare “di qua o di là”, si poteva costruire in questo modo un polo di sinistra alternativo a un polo di destra, pronto a cavalcare spregiudicatamente la fine del comunismo e la mondializzazione del mercato?
Sulla base di questa illusione, del bipolarismo, si è affidato alle elezioni primarie il compito di surrogare il ruolo del “partito” e al leader il compito di garantire la governabilità. Sin dall'elezione di Romano Prodi come leader dell'Ulivo, e dopo il Lingotto con Walter Veltroni.
Già l'onorevole Nenni aveva notato che “alla politica non si mettono le braghe”.
Non mi soffermo sulla fine del bipolarismo: su questa questione ho pubblicato nel 2013 “L'inganno del bipolarismo”.
L'affermarsi con le elezioni del 2013 del Movimento 5 Stelle, e soprattutto l'esito del referendum del 4 dicembre 2016, hanno costretto i sostenitori del bipolarismo a ricollocarsi nel nuovo orizzonte tripolare, a riflettere sul sistema proporzionale e sull'importanza – in una società sempre più complessa – della politica delle alleanze.
D'altra parte, vent'anni di sistemi elettorali tendenzialmente maggioritari, hanno prodotto una rappresentanza parlamentare sempre più frazionata e profondamente caratterizzata dal trasformismo.
I sostenitori del presidenzialismo, delle regole maggioritarie, della democrazia diretta, dovrebbero riflettere sulla crisi di tutti i sistemi che esaltano il decisionismo: dal presidenzialismo USA, al semipresidenzialismo francese, all'uninominale/maggioritario britannico. Quando si esalta il primato dell'elezione diretta come garanzia di governabilità, si deve ricordare che la proporzionale può essere corretta da un premio di maggioranza, e comunque è un sistema elettorale compatibile con candidature uninominali. Si ricordino l'antico Senato e le elezioni provinciali.
Oggi il “populismo” si presenta come alternativa al riformismo.
Sul populismo Matteo Revelli ha scritto pagine condivisibili e preoccupate. Non c'è un solo populismo, ed è difficile definirne la natura. All'alba, il populismo può apparire come una ricerca della politica. Al tramonto, diventa espressione dell'anti-politica e si comporta soprattutto come un movimento antiparlamentare. Tuttavia c'è anche il populismo di governo.
Per Grillo, il M5S va oltre la destra e la sinistra: ma qual è lo sbocco di questo populismo? In occasione del referendum del 4 dicembre il M5S ha difeso la Costituzione e quindi la centralità del Parlamento. Tuttavia in più occasioni ha esaltato le democrazia diretta e il partito unico; e questa strategia – che ha in comune con la Lega – ha poco a che vedere con la democrazia rappresentativa poiché rifiuta il dialogo come espressione del pluralismo. In questo Grillo assomiglia a Renzi, che recentemente sia Prodi che Veltroni hanno invitato alla moderazione, a superare una posizione che ha portato il PD all'isolamento.
L'Unione europea. Se riflettiamo sul populismo che sta dilagando in Europa, potremmo sostenere che la tendenza populista è una tendenza “sovranista”, nazional-populista. Il populismo del Movimento 5 Stelle sfida i riformisti; il centrodestra che sta ritornando in campo con Berlusconi, è condizionato dal sovranismo della Lega. I sovranisti cavalcano le tensioni sociali prodotte dalle migrazioni, la disoccupazione giovanile, le diseguaglianze sociali. C'è nel populismo l'onda di una protesta che non si può ignorare. Ma c'è anche antipolitica, e in qualche caso il ricorso a un linguaggio giustizialista (si pensi alla polemica sui vitalizi). E questa protesta di piazza, anche quando si intreccia con una domanda di rinnovamento della politica, non indica alcuna risposta alle domande che pone.
Ecco perchè la polemica della Lega e del M5S contro l'Unione europea, fatta con riferimento alla “cessione di sovranità” richiesta agli Stati nazionali dal progetto federalista, fa emergere due contraddizioni. In primo luogo, qualunque sia il problema cui fanno riferimento i “sovranisti”, è certo che fuori dell'UE – nel mondo globalizzato – la condizione dell'Italia peggiorerebbe. In secondo luogo non si può ignorare che l'atteggiamento dei Paesi dell'Est sui migranti dall'Africa, dimostra che i sovranisti sono i peggiori nemici dell'Italia. Per alcuni Paesi, eredi del Patto di Varsavia, l'Unione europea è soprattutto “una garanzia delle frontiere nazionali” nei confronti della Russia.
Concludo tornando alla sinistra e al Partito Democratico.
Matteo Renzi continua a fondare la sua strategia su uno statuto che comporta, per il segretario del PD, eletto con le “primarie”, la candidatura a premier: questa – con il doppio turno - sarebbe la garanzia della governabilità. E sembra ignorare che anche il sistema proporzionale può garantire la governabilità, se viene coniugato con un premio di maggioranza alla coalizione che ottiene il 40 per cento dei consensi elettorali. Questo era, nei primi anni '90, il progetto della DC. Craxi lo rifiutò, poiché lo avrebbe costretto a scegliere, prima del voto, da quale parte stare: con la DC o con il PCI. Mentre Craxi voleva guidare l'alternativa alla DC, in competizione con il PCI.
In realtà Renzi non vuole coalizzare il PD prima del voto, sulla base di un programma di governo, perché teme che questa regola metta in discussione la sua leadership. E tuttavia non può ignorare che il vincitore delle elezioni politiche, se non ottiene da solo il 40 per cento dei voti, dovrà – dopo il voto – cercare un'intesa per formare una maggioranza di governo.
Perchè preferisce questa via, sicuramente meno trasparente di quella prima indicata?
Questa contraddizione espone un partito isolato e una sinistra divisa al rischio della sconfitta, mentre una regola elettorale che premia le coalizioni è una via che favorisce la ricomposizione del centrosinistra.
Questo è il nodo da sciogliere, prima che sia troppo tardi.
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