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Giovanni Bianchi, tra limite e profezia

 
di Giuseppe Davicino
 

È morto nella sua Sesto lunedì scorso Giovanni Bianchi, presidente nazionale delle ACLI, poi presidente del Partito popolare italiano, tra i fondatori dell'Ulivo e coerente rappresentante della dottrina sociale cristiana nel PPI, nella Margherita e infine nel Partito democratico. Parlamentare per tre legislature, fino al 2006, diede vita ai Circoli Dossetti di cui è stato l'anima sino all'ultimo.
Pubblichiamo il ritratto che ne tratteggia il nostro amico Giuseppe Davicino, giovane aclista che lo ha sempre considerato un Maestro, e in calce all'articolo trovate il link che rimanda al ricordo di Gianni Bottalico, successore di Bianchi al vertice delle ACLI.
 
Ora che il pellegrinaggio terreno di Giovanni Bianchi verso la Gerusalemme celeste si è concluso, mi risulta ancor più difficile indicare quale fosse l'indole principale della sua personalità poliedrica che ha dato frutti fecondi in molteplici ambiti.
Quella aclista, del Congresso ACLI di Milano nel 1988, in cui insieme ad altri giovani universitari di orientamento cattolico-democratico, lo vidi per la prima volta parlare a un Paese nel quale i sintomi del passaggio di fase nella storia della nostra democrazia erano già tutti evidenti.
Oppure quello del politico, amico e discepolo di Dossetti, che a metà degli anni Novanta con la Bindi, Bodrato, Mattarella, Gerardo Bianco condusse con intelligenza e con forte determinazione la battaglia per portare il nuovo Partito Popolare nel campo riformatore, come embrione dell'incombente progetto dell'Ulivo.
O quella dell'intellettuale, del filosofo, dello scrittore e del poeta che lo ha reso, e lo renderà ancora, una figura di riferimento per la formazione all'impegno sociale e politico di diverse generazioni di cattolici e di cittadini.
 
Radicatissimo nella sua Sesto San Giovanni, che lo vide consigliere comunale tra le fila della Democrazia Cristiana, e sempre protagonista – da presidente nazionale delle ACLI, tra il 1987 e il 1994, e da parlamentare, dal 1994 al 2006, e anche dopo, da esponente del Partito Democratico – nelle vicende della politica italiana, non trascurò mai di studiare la politica internazionale, innanzitutto come cornice in cui inquadrare e comprendere meglio la concreta realtà del suo territorio e del Paese. Rimarrà scolpita nella storia degli operatori di pace la sua missione nell'Iraq da Saddam Hussein nel dicembre del '90, insieme ad altri politici italiani, alla vigilia della prima guerra del Golfo, in cui ottenne un grande gesto distensivo, la liberazione degli ostaggi italiani. Ma che tuttavia non riuscì a fermare la follia occidentale in Medio Oriente, che aprì un conflitto trentennale la cui scia arriva fino ad oggi, e che ha provocato più vittime che nella seconda guerra mondiale, anche se non ne siamo coscienti.
 
Uomo di vaste e impegnative letture, la sua solida elaborazione culturale ha accompagnato e segnato alcune grandi svolte della politica italiana: la stagione referendaria, il passaggio alla “seconda repubblica”, lo speranzoso avvio del Partito Democratico. E non solo. Lo stile di apertura e di dialogo dell'episcopato ambrosiano del cardinal Martini, che Giovanni Bianchi colse in molti suoi importanti risvolti sull'impegno civile e politico dei cattolici, in particolare nel suo Martini “politico” e la laicità dei cristiani, che in qualche modo anticipò i temi più cari al pontificato di Papa Bergoglio.
In fondo, la forte politicità di Bianchi, nella società civile, nelle istituzioni, in politica deriva proprio da una vastità di interessi e di orizzonti spirituali e culturali che lo portavano a meglio comprendere il giorno per giorno. Se questa è impoliticità, ben venga. E tutti vedono quanto ce ne sarebbe bisogno nel contesto attuale, non solo italiano.
 
Per questo egli fu anche una grande figura di riferimento per ciò che resta del cattolicesimo democratico, causa che ebbe sempre molto a cuore. Indicandoci non la contemplazione delle cose che furono bensì il lasciarsi coinvolgere nella tensione apocalittica che proietta la finitudine verso nuovi orizzonti di senso.
In un suo saggio del 2013 affermava: “Se è indubbiamente vero che all'origine del cattolicesimo democratico stanno il concetto e la pratica sturziana del limite, è altrettanto vero che senza il rischio nella profezia non c'è pratica politica possibile per chi voglia ricominciare un'esperienza che da noi ha preso il nome di cattolicesimo democratico”.
Sì, quella di Giovanni Bianchi è stata un’esistenza vissuta intensamente fra il limite e la profezia, che ci sprona tutti a raccoglierne il testimone.

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Giorgio Merlo - 2017-07-29
Un bel ricordo quello descritto da Giuseppe. Con una certezza. Giovanni, a tutti gli effetti, e' stato un "maestro". Soprattutto per i cattolici impegnati in politica e per tutti coloro che hanno creduto, e credono, in una politica di ispirazione cristiana, popolare e democratica.