Giovanni Orsina nei suoi frequenti editoriali su "La Stampa" pone sempre questioni rilevanti che affronta con considerazioni mai banali, in grado di suscitare il desiderio di un più ampio approfondimento.
In un articolo del 6 maggio scorso, scrive che, secondo Schumpeter, la democrazia non è il governo del popolo ma delle élites, che propongono le scelte al popolo. Oggi, aggiunge Orsina, questo modello, che ha avuto lunga vita, è saltato: ormai la proposta politica evolve con i social e i sondaggi, seguendo l'umore della gente. Si tratta di un circolo vizioso: l'élite sbaglia, la gente la fa fuori, e quella che viene dopo è ancora peggiore. In tal modo, il popolo ha già eliminato una serie di classi politiche migliori dell'attuale.
La politica, invece di esercitare un ruolo di guida, oggi va dietro a quello che vuole la gente perdendo credibilità e seguito. Così le élites hanno cessato di esercitare il loro compito nella società. Aggiungo io che, se questa rappresentazione trova nei cosiddetti populisti convinti interpreti, nessuno, a sinistra come a destra, si sottrae a recitare questa parte in commedia.
Il discorso di Orsina contiene elementi di verità, ma per certi versi non mi convince.
L’élite è una cerchia ristretta di persone che si distinguono dai più per superiore cultura o istruzione, censo e ascendente, e che occupano posizioni di potere. L’élite ha sempre degli interessi suoi propri che difficilmente coincidono con quelli del popolo, essendo la sua priorità confermare la propria posizione privilegiata.
Ma una élite valida e responsabile sa che per mantenere il potere non può ignorare le esigenze vitali delle classi popolari, e cercherà di soddisfarle senza mettere in secondo piano i propri interessi. Ci sono state élites capaci di esercitare tale ruolo che presuppone vicinanza (anche in senso fisico) tra le classi. Ciò è accaduto perfino in un lontano passato, a partire dal Medio Evo, quando aristocrazia, clero e popolo, anche se avevano ruoli e diritti diversificati, vivevano entro una stessa comunità e condividevano riferimenti valoriali comuni.
Nella modernità attuale (come nella fase declinante dell’antico regime), la distanza tra ceto privilegiato e popolo si è fatta sempre più marcata, mentre si sono disgiunti anche i riferimenti culturali che orientano i comportamenti. Oggi, ogni tipo di élite (mondo della finanza, della comunicazione, dell’alta burocrazia, delle grandi professioni, ecc.) vive in un proprio mondo, disancorata dalle varie realtà territoriali, così che non è più in grado di capire il popolo e le sue necessità. Di élites di questo tipo alla guida del Paese non se ne sente la mancanza.
Ancora Giovanni Orsina, in un precedente articolo del 22 febbraio, analizza le ragioni della crisi della sinistra a livello mondiale, un tema che ha molto a che fare con quello del declino delle élites. Dopo aver dichiarato di non essere d’accordo con quanti proclamano la morte delle categorie politiche di destra e sinistra, ammette che la recente frattura intervenuta fra sovranisti e globalizzatori pesa molto, e attraversa sia la destra sia la sinistra. Ne consegue che le forze politiche tradizionali si trovano di fronte a un travaglio per ridefinire se stesse e prendere atto della nuova realtà.
In questa situazione, è la sinistra a trovarsi in maggiore difficoltà, poiché si assiste all’assalto al patrimonio di valori progressisti riassunto nel “politicamente corretto”, cioè diritti individuali, cosmopolitismo e multiculturalismo. Questi valori negli ultimi decenni si sono imposti nello spazio pubblico, ma se anche le destre tradizionali ne sono state condizionate, sono le sinistre ad averne fatto una ragione di vita. Pertanto, l’odierna sfida al politicamente corretto, che nasce dal basso, determina la crisi della sinistra occidentale.
Tale crisi ha a che fare con due ordini di fenomeni. In primo luogo, la rottura del rapporto tra i valori attualmente professati dalla sinistra e la sua vecchia base sociale: infatti, il politicamente corretto trova adesioni nei piani alti della società, mentre coloro che lo sfidano hanno seguito in quelli bassi. Il secondo fenomeno è la fragilità intrinseca del politicamente corretto: il pensiero progressista, in nome del multiculturalismo, valorizza tutte le identità tranne – paradossalmente – la propria; indebolisce così le proprie stesse radici, da cui nasce il politicamente corretto. Come il cavaliere inesistente di Italo Calvino, che deve la sua esistenza a un atto di volontà, così fa la sinistra, ma tale volontà politica si indebolisce e viene a mancare con la depressione economica e il divorzio tra valori di sinistra e popolo.
Analisi corretta e in larga misura condivisibile, ma che richiede delle puntualizzazioni.
Le categorie di sinistra e destra contrassegnano il panorama politico europeo da oltre due secoli, tuttavia i contenuti che definiscono tali categorie sono variati nel tempo.
Per molti, sinistra significa attenzione al mondo del lavoro, ma nella seconda metà dell’Ottocento, la destra l’ha preceduta su questo terreno: infatti è stato Napoleone III, in Francia, a introdurre la legislazione operaia e il riconoscimento del diritto di sciopero, e soprattutto è stato Bismarck, in Germania, a mettere in campo misure anticipatrici di ciò che oggi definiamo Welfare o Stato sociale. Solo con l’affermarsi del movimento operaio e dei partiti socialisti (che inizialmente non si consideravano di “sinistra”, termine riferito alle formazioni politiche borghesi repubblicane e laiciste), la centralità del mondo del lavoro è andata a contrassegnare il campo di quella che, appunto con l’ingresso in Parlamento dei socialisti, è diventata la sinistra novecentesca.
Altrettanto si potrebbe dire del ruolo assegnato in economia all’intervento statale, sostenuto a lungo dalle destre per diventare poi connotato della sinistra, che tuttavia, oggi, si mostra contraria allo statalismo.
Ora, quei valori espressi dal politicamente corretto (diritti individuali, cosmopolitismo e multiculturalismo), che Orsina indica essere la ragione di vita della sinistra, non sono affatto un connotato che da sempre la caratterizza. Sono infatti riconducibili a quella sinistra “liberal” di matrice anglosassone, che non è mai stata maggioritaria in Europa, e che si è imposta solo con la fine della Guerra fredda e l’avvento del predominio americano a livello planetario.
Mi chiedo se, nel PD e dintorni, ci sia ancora qualcuno che si ricordi del vecchio PCI e dei comportamenti pubblici e privati che esigeva dai militanti, non proprio in sintonia con quelli oggi richiesti dal politicamente corretto. Se la sinistra resta ancorata al politicamente corretto, diventa sempre più identificabile con quell’élite planetaria interprete di una globalizzazione funzionale alle esigenze del capitale finanziario. Una sinistra lontana dalla gente, che viene definita in Francia una “gauche caviar” (sinistra al caviale), e altrove “radical chic” perché ormai in essa si riconosce solo più un ceto medio-alto, sradicato da ogni appartenenza nazionale. In materia, ricordo che l’internazionalismo professato a suo tempo dal movimento socialista non aveva nulla a che fare con il cosmopolitismo della sinistra attuale, e che i socialisti, mentre combattevano il nazionalismo, non rinnegavano la nazione, a differenza degli attuali fautori del globalismo.
Orsina definisce fragili gli elementi alla base del politicamente corretto. In realtà sono in larga misura inconsistenti. In particolare non si possono declinare insieme multiculturalismo e cosmopolitismo, poiché la cultura vive solo entro una comunità ancorata a un territorio, e ogni cultura (che non sia quella dominante) viene uccisa dal cosmopolitismo.
Introdurre poi sempre nuovi diritti è fuori dalla realtà: l’esercizio dei diritti non si regge sul nulla, ma richiede risorse (oggi sempre più scarse) e l’impegno delle persone (che oggi, in nome dell’individualismo, rigettano lo stesso concetto di dovere). Ci sono poi i limiti naturali che è illusorio pensare di aggirare.
Un’ultima considerazione. Come è stato detto, una forza politica responsabile non può limitarsi a registrare le domande della gente, sovente contraddittorie o irrealistiche, ma deve selezionarle e inserirle in un programma. Per fare ciò, una forza politica necessita di uno strumento, il partito, provvisto di una larga base di militanti e di un solido e qualificato gruppo dirigente, capace di elaborare progetti di lungo respiro e di svolgere una funzione pedagogica. Un tale gruppo dirigente, tuttavia, non consiste in una élite tesa ad imporre una linea dettata da un’ideologia di cui è custode (come avviene oggi con quella neoliberale o del pensiero “politicamente corretto”) o da un sapere tecnico di cui si sente depositaria (come accade con l’affermazione delle figure tecniche).
Una forza politica democratica deve costruire un progetto insieme ai cittadini, che è tenuta a rappresentare, e tenere conto delle loro esigenze e dei valori culturali nei quali si riconoscono principalmente le classi popolari, che sono il cuore della società e ne garantiscono la continuità. Tuttavia, questo è un traguardo estremamente difficile – se non impossibile – da proporre da quando il dominante pensiero neoliberale ha profondamente modificato le caratteristiche culturali e le aspettative della gente, con la continua esaltazione del successo individuale, della ricchezza e dei consumi. |