Le elezioni amministrative, fresche di ballottaggi, hanno evidenziato quattro linee di fondo: alto astensionismo, battuta d'arresto della "spinta propulsiva" del Movimento 5 Stelle, nuova sconfitta di Renzi e del suo partito, centrodestra in ripresa di risultati (per demeriti altrui).
Vediamole una per una.
Il forte astensionismo, anche nelle elezioni "più vicine al cittadino", è figlio di una rassegnazione che accomuna verso il basso tutte le opzioni politiche. Pochi vanno a votare per adesione e fiducia verso partiti o movimenti politici nazionali. A questi si aggiungono quanti vengono coinvolti da liste civiche e tutti coloro che i candidati riescono a mobilitare, facendo leva su rapporti personali. Il tutto, al primo turno, fa poco meno del 60% del corpo elettorale, con una diminuzione di quasi 7 punti percentuali rispetto alla precedente tornata. Ai ballottaggi un prevedibile, secco calo di votanti (-12%) ha fissato l’affluenza complessiva sotto la metà dell’elettorato. Per la scelta dei sindaci e dei propri amministratori locali è proprio poco.
Va sottolineata la decisa inversione di tendenza dopo la sorprendente affluenza il 4 dicembre scorso, quando il 70% di votanti – a un referendum! – aveva spiazzato anche i più ottimisti. In quell’occasione i cittadini hanno capito l’importanza della posta in palio e della partecipazione per far alla fine prevalere il No a dubbie modifiche della Costituzione. Ora possiamo ipotizzare almeno un terzo del corpo elettorale che non va a votare perché “sono tutti uguali”.
“Tutti uguali”, anche il Movimento 5 Stelle.
Beppe Grillo e i suoi possono legittimamente sostenere di essere stati i più votati, considerato il gran numero di liste civiche presenti anche nelle coalizioni d’appoggio ai vari candidati di centrodestra e centrosinistra, togliendo voti ai partiti maggiori. Certo è che i grillini sono entrati solo in 10 ballottaggi nei 160 Comuni oltre i 15.000 abitanti. Ne hanno vinti 8, ma per una forza politica che pensa di essere la prima del Paese, il risultato è deficitario.
È passato un solo anno dal trionfo 2016, con i ballottaggi vinti a mani basse da Roma a Torino, passando per altri 35 Comuni della penisola. Possiamo ben dire che la “spinta propulsiva” del Movimento si è fermata, o perlomeno che ha subito una brusca frenata. Hanno pesato le vicende romane, i pasticci della Raggi, le giravolte politiche di Grillo, le firme farlocche a Palermo, le primarie sconfessate a Genova e, non ultima, la colpevole superficialità della sindaca Appendino per la drammatica serata di Piazza San Carlo.
Una classe dirigente non si improvvisa, e la gente – sondaggi alla mano – se ne sta accorgendo.
A far compagnia ai grillini sulla panca degli sconfitti c’è il PD. L’ineffabile Renzi ha parlato “numeri alla mano” di vittoria elettorale, vantando “67 Comuni conquistati contro 59 del centrodestra”. Il totale fa 126, mentre in realtà (fonte “Repubblica”) sono stati 160 i Comuni oltre i 15.000 abitanti andati alle urne (sui 1021 complessivi). Considerati tutti i 160, ne ha vinti 55 il centrosinistra, che però era al governo di 88 amministrazioni: perdita secca di un terzo.
Se poi consideriamo solo i 25 capoluoghi di Provincia andati al voto, 16 saranno amministrati dal centrodestra e 6 dal centrosinistra (più due sindaci civici e Trapani commissariato per non aver raggiunto il quorum di votanti). La situazione precedente era di 15 sindaci PD e 7 di centrodestra (più tre civici). Il ribaltamento è evidente. Si tratta di una sconfitta che allunga la serie: anche nelle amministrative 2016 il centrosinistra a guida PD aveva perso 14 Comuni capoluogo, confermandosi in 6 e riconquistandone 2.
Un anno fa Renzi era debordante, esaltava i successi del suo governo e le “magnifiche sorti e progressive” della riforma costituzionale. Nelle settimane scorse si è tenuto ben lontano da tutti i Comuni al voto, forse presagendo la sconfitta o forse anche – così mi ha riferito un amico più addentro ai palazzi romani – su richiesta dei candidati sindaci impegnati nei ballottaggi. Ma tenere il più basso profilo non è bastato: il segretario fiorentino pare diventato un Re Mida al contrario, un perdente seriale che dopo aver distrutto il centrosinistra sta portando il suo partito personale a sgonfiarsi rapidamente. Un dato emblematico: ad Asti la candidata sindaco Angela Motta ha preso il 15% (com’è noto non è entrata al ballottaggio per una manciata di voti) e la lista del PD ha ottenuto il 9,5%, dimezzando il consenso di cinque anni fa… e dopo aver governato il Comune. Ma è così in tante periferie d’Italia. Non basta l’impegno sul campo dei militanti rimasti se la politica del vertice è lontana dai territori…
Qualcosa a Roma si sta muovendo: Prodi ha “spostato la tenda”, Veltroni (“la vocazione maggioritaria non significa autosufficienza, bisogna essere inclusivi”) e persino il prudentissimo Franceschini hanno cominciato a smarcarsi pubblicamente da Renzi. Vedremo gli sviluppi, così come seguiremo il tentativo di Pisapia di rilanciare il centrosinistra nello spirito di un rinnovato Ulivo.
Dell’astensionismo, degli sbagli di Renzi e Grillo, si è giovato il centrodestra, vero vincitore della tornata amministrativa. Riteniamo che non sia stata affatto una sorpresa, per due motivi.
Il primo è che già lo scorso anno nei ballottaggi i maggiori beneficiati della tacita coalizione “anti-Renzi” erano stati i candidati di centrodestra. È vero che avevano fatto scalpore i trionfi grillini di Roma e Torino, con il contorno di altri 35 Comuni. Ma le coalizioni tra Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia – con enormi diversità politiche tra loro ma alla fine capaci di unirsi per vincere e governare – avevano riconquistato ben 9 capoluoghi di Provincia (tra cui ricordiamo Novara, amministrata dal renzianissimo Ballarè).
Il secondo motivo è che il populismo, da mix di confuse e contraddittorie istanze giustizialiste, ugualitarie, corporative, antieuropeiste, assistenziali, libertarie, protezioniste ecc. ecc., alla fine – inesorabilmente – vira verso destra. Nella storia è sempre successo, e non fa eccezione l’Italia di oggi, stordita e delusa da imbonitori e venditori di illusioni.
E aggiungiamoci le preoccupazioni per le ondate migratorie, le strutturali incertezze dell’economia, la precarietà del lavoro: sono tutti venti che sospingono l’elettorato verso le sirene di destra.
Certo, tra Berlusconi, Salvini, Meloni non si intravede un nocchiero capace di sfruttare la corrente. Ma potrebbe saltar fuori da un momento all’altro, specie se il vento continuerà ad essere propizio. Anche perché Grillo e Renzi, invece di invertire la rotta, stanno dando una bella mano.
Questo editoriale prepara il dibattito di lunedì 3 luglio (ore 18, Educatorio della Provvidenza di corso Trento 13 a Torino) che verrà introdotto da una relazione di Guido Bodrato sulla situazione politica in Italia alla luce dei risultati delle elezioni amministrative. |