Parlare di Mino Martinazzoli significa prendere a riferimento una visione alta della politica. Una politica capace di muoversi per il bene comune, nella concretezza quotidiana delle questioni da affrontare. Un recente convegno tenutosi a Montaldo Torinese ci ha permesso di ricordarne la figura, di riflettere sulla sua ispirazione ideale. All'incontro, promosso da Collegamento sociale cristiano, hanno partecipato il vescovo di Prato monsignor Gastone Simoni (che è anche presidente onorario di CSC) e l'ex parlamentare e storico esponente della sinistra DC, Guido Bodrato, presidente onorario dei Popolari piemontesi. A fare gli onori di casa, Sergio Gaiotti, ex consigliere comunale a Torino e oggi sindaco del piccolo comune della cintura torinese.
La rievocazione dell'ultimo segretario della DC ha voluto essere anche una riflessione sull'attualità del popolarismo e, più in generale, sull'odierno quadro politico.
Guardando all'oggi, la cosa che più colpisce è proprio la superficialità con cui si trattano i problemi. Che si discuta di legge elettorale o che si parli di questioni economiche, è tutto un protendersi sui sondaggi, nell'illusione di lucrare qualche consenso nel breve periodo. In poche parole manca una visione del futuro capace di alimentare le scelte concrete della vita politica. Ed è proprio questo a rendere debole la politica, non in grado di influire, come sarebbe suo preciso e imprescindibile compito, sulle grandi scelte della società ma finendo invece soverchiata dallo strapotere dell'economia.
E bisogna dire che Martinazzoli aveva ben chiare le finalità ultime della politica, intesa come momento di promozione delle classi subalterne, secondo un disegno democratico ed egualitario, per superare almeno in parte le disuguaglianze sociali ed economiche. Una visione che traeva alimento dall'ispirazione cristiana collocata a monte del suo pensiero e della sua azione. Una proposta antropologica, prima ancora che etica e politica, in consonanza con quanto affermato da Paolo VI nella Populorum Progressio, di un pieno sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini.
Questa ispirazione ideale non impediva di scorgere i limiti della politica stessa, tipici di qualsiasi altra attività umana e destinata dunque per natura a non sentirsi mai pienamente appagata. Un limite che costituisce anche un antidoto a una visione totalizzante e totalitaria della politica, appannaggio delle ideologie comuniste e fasciste, in cui la classe sociale o lo Stato subordinano la persona umana alle loro finalità.
Nella logica di ispirazione cristiana, la persona precede invece qualsiasi costruzione statale o sociale, risultando prioritari i diritti inalienabili dell'uomo. Qui a ben vedere, c'è l'essenza stessa del popolarismo, non dissimile peraltro da un temperato liberalismo attento alla persona umana.
E infatti Martinazzoli poteva dirsi un cattolico liberale, intriso di una profonda laicità che non prelude a un appannamento dell'ispirazione cristiana ma semmai al suo migliore e corretto inserimento nella dialettica democratica. E in questo si innestava la sua concezione – non lontana da quella propugnata dal filosofo laico per antonomasia, Norberto Bobbio – di una “politica mite”. Mitezza non per un timoroso cedimento alle ragioni altrui, ma come attitudine che apre le porte al dialogo e al confronto. Questo, in sintesi, può essere l'insegnamento di Mino Martinazzoli.
Ben sapendo che non amava dare lezioni, conscio – come pochi altri esponenti politici – che la nostra epoca ha più bisogno di testimoni che di maestri. |