Il professor Pietro Terna, docente emerito di Economia politica all’Università di Torino, presidente del Collegio Carlo Alberto e sostenitore di politiche neo keynesiane per favorire la ripresa economica, ha risposto al questionario collegato al seminario “Se manca il lavoro…", organizzato dai Popolari piemontesi per comprendere i possibili sviluppi di una società in cui non c’è più lavoro per tutti.
1. In Italia e in tutto l’Occidente non ci sarà più lavoro per tutti. Parliamo di un lavoro continuativo e retribuito in misura tale da permettere a ciascuno una progettualità di vita. Due le cause della carenza di lavoro: l’automazione crescente dei processi produttivi, come aveva previsto Rifkin – e prima di lui Keynes – e la crescita economica dei Paesi emergenti, che riducono la fetta di ricchezza mondiale dei Paesi ricchi. È d’accordo con questa affermazione preliminare?
La crescita dei Paesi emergenti e poi quella dei Paesi non ancora sviluppati è una fortuna per tutti, in un mondo di maggiore eguaglianza. I Paesi più sviluppati hanno solo da trarre beneficio da ciò. Non considererei paragonabili le considerazioni di Rifkin (catastrofista-ambientalista dalle laute parcelle) con quelle di Keynes, uno dei massimi economisti di tutti i tempi: il suo testo divulgativo è allegato come documento il coda al questionario. Quel che conta è la rivoluzione tecnologica, che aumenta la capacità produttiva dei sistemi agricoli, industriali e terziari, richiedendo sempre meno lavoro. Per Keynes (e per me, mettendomi molto immodestamente accanto a quel grande uomo) non è un male: lavorare 15 ore la settimana o anche meno è una profezia credibile a 20-30 anni.
2. Non pensa che l’Occidente debba cominciare a fare i conti con una sua inevitabile decrescita? Più o meno “felice”, ma almeno equilibrata.
Ora abbiamo conosciuto la decrescita infelice e forse i profeti di quella felice hanno qualcosa da imparare… Tutto cambierà profondamente, con al centro l’attenzione sia ai bisogni veri delle persone, sia all’ambiente. Il primo disequilibrio da ridurre è quello tra grandi aree geografiche; altrettanto quello tra le persone dei Paesi ricchi, ma forse è meno urgente.
3. Anche se il PIL dell’Occidente dovesse mantenersi – come sta facendo – agli stessi livelli, è innegabile che la distribuzione della ricchezza risulta sempre più diseguale. Come intervenire su tale grave squilibrio sociale, tenendo conto che è soprattutto il ceto medio che si sta impoverendo, in Europa come negli USA?
Sappiamo che la concentrazione della ricchezza è eccessiva, ma sappiamo anche che là dove i beni prodotti sono “ricchi di intelligenza” la disparità nelle ricchezze è più bassa. Non dobbiamo quindi avere paura del progresso tecnologico, con un importante fondamentale controllo sulla possibilità delle persone di accedere ai beni prodotti (rif. a risposta finale).
4. L’Italia, rispetto ad altri Paesi europei, sembra avere squilibri di reddito più marcati. Come si potrebbe intervenire, con la fiscalità o con provvedimenti sul sistema pensionistico, per ottenere maggiore giustizia sociale? Il mantenimento del principio dei diritti acquisiti è giustificabile in una situazione di crisi, in particolare di crescente disoccupazione giovanile?
Qui mi permetto di rinviare alla proposta di cui sono co-promotore e che si trova a http://www.propostaneokeynesiana.it (dove si fa uso della fiscalità per la redistribuzione).
5. Torniamo al lavoro che manca. Quello che c’è, può venire ridistribuito? Ridurre l’orario e trasformare gli straordinari in nuovi occupati è possibile?
La direzione è la riduzione degli orari di lavoro, che però non coincide con la redistribuzione del lavoro. Il fenomeno è complesso: più persone lavorano, meglio è per tutti; meglio ancora se contemporaneamente si riduce il peso del lavoro per tutti.
6. Semplificare le norme e ridurre il costo del lavoro potrebbe creare nuova occupazione? O almeno servirebbe a mantenere il lavoro che c’è, agevolando chi intraprende?
Flessibilità e incentivi ci sono già, con pochissimo esito. La vera semplificazione è la reale semplificazione per chi vuole costituire una azienda, stipulare un contratto, sapere con certezza se rispetta le normative sulla produzione ecc..
7. Si insiste tanto sulla formazione, intesa soprattutto come preparazione alla flessibilità nelle competenze e capacità di apprendimento continuo. Ma come programmare i contenuti della formazione per un mondo del lavoro in rapidissima evoluzione?
Le competenze di fondo sono e saranno sempre le stesse: imparare a imparare; conoscere le altre lingue (e molto bene la propria); rappresentare sé e la società (cultura umanistica); grande confidenza con la matematica e con l’informatica, in quanto applicazione della matematica e della capacità logica. Non occorre essere tutti professori! Quelle competenze si possono acquisire a vari livelli e gradi, ma la base è quella.
8. Infine, se manca il lavoro, posto dalla Costituzione a fondamento della Repubblica, su cosa baseremo la nostra civile convivenza? L’adozione di un “reddito di cittadinanza” potrebbe essere un’idea valida? Ma lo ritiene economicamente sostenibile?
L’aumento della produttività rende via via sostenibili forme di partecipazione dei cittadini al soddisfacimento dei loro bisogni più articolate e profonde. Il reddito di cittadinanza può rappresentare un passo (in tempi vicini) in quella direzione.
La trasformazione complessiva, che avverrà nei prossimi decenni, è imprevedibile nei dettagli: certo una traiettoria possibile va certamente verso l’abbondanza con i robot che producono merci e servizi e anche i robot, e quindi la non necessità dei prezzi e della moneta. Di chi i robot? Della società, se la politica riscopre il proprio primato e governa la complessità della transizione. |