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Aprire, con coraggio, strade nuove

 
di Carlo Baviera
 

Da tempo sarebbe utile cercare di ricomporre il puzzle dei partiti per evitare la continua nascita e morte di movimenti nuovi, la costituzione di cartelli elettorali che si sciolgono dopo le elezioni. E il tutto al netto della novità Macron/En Marche, nuova tentazione per le sponde nostrane.
Invece si continua a rinfacciarsi il risultato del referendum costituzionale, il non riuscito meticciato del PD, e ora la schiacciante vittoria alle primarie (pur con una sensibile riduzione dei votanti).
 
Penso che un riavvicinamento valga anche per il cattolicesimo politico, soprattutto per quello che si è sempre posizionato nel filone democratico-riformatore-solidarista. E mi scuso per l’insistenza che uso per dividere in settori diversi i credenti che si interessano alla cosa pubblica: già Sturzo, con ben maggiore autorevolezza della mia, affermava che la religione è unità, ma la politica è divisione; per cui credenti o meno si deve essere “o sinceramente democratici o sinceramente conservatori”. Anche nel XXI secolo!
Ha scritto di recente Sandro Antoniazzi di c3dem: “Come dicono bene i teologi argentini, che sono stati probabilmente di riferimento al pensiero di Papa Francesco, anche il pensiero sociale cristiano si è dimostrato spesso solo una versione buonista della concezione economica dominante. È ora di usare più coraggio, di aprire con decisone strade nuove, di non aver paura a uscire dai canoni tradizionali, perché è evidente che non sono più adeguati, mentre aumentano i problemi e l’insoddisfazione della gente, che non è disposta ad aspettare oltre”.
Ecco. È ora di avere più coraggio e aprire strade nuove.
 
Il puzzle si può ricomporre soprattutto se non si rimescola sempre la stessa farina, se non sono sempre gli stessi personaggi che fanno e disfano per mantenersi a galla e restare in sella a partiti, ministeri, scranni parlamentari. E venendo da un partito che si diceva di centro, se sono gli Alfano, i Casini, i Cesa e compagnia (i quali si dicono centristi e interpreti di moderazione e valori popolari) a rappresentare le strade nuove o ad usare il pensiero sociale come pannicello per i mali dell’economia, fanno bene gli italiani a guardare altrove.
Ho anche letto che l’impegno offerto dai riformatori negli ultimi lustri è stato percepito dai cittadini come esclusiva azione per frenare i disastri, riguardo alla dignità delle persone, causati da una certa globalizzazione, oppure di controllarne solo gli eccessi. Mentre ciò che ci si aspettava era una battaglia incisiva contro le politiche finanziarie ed economiche mondiali per produrre il cambio di paradigmi, il cambio di strategie, e definire regole a protezione del lavoro e dei sistemi di welfare; anziché soccombere al dumping sociale imposto dai centri decisionali durante i loro meeting periodici, che hanno depotenziato il ruolo degli Stati.
 
Questi aspetti (la visione buonista con cui si è utilizzato il pensiero sociale della Chiesa, e un ruolo sempre più sfumato rispetto alle promesse originarie da parte delle sinistre democratiche) si possono accostare ad altre due considerazioni fatte dopo il referendum del 4 dicembre scorso.
Enzo Cheli (su “Il Mulino” del 2 gennaio 2017) rileva che “il Paese dimostra, con il referendum, di avere ben compreso dal momento che la ‘palude’ che con l’ultima ‘grande riforma’ si dichiarava di voler superare trova certamente la sua prima causa non tanto nel modello costituzionale di cui disponiamo (modello che, almeno nel suo complesso, ha sinora retto bene la prova del tempo) quanto nelle disfunzioni di un sistema politico che dopo anni di affanno si presenta oggi in condizioni di crescente dissesto”.
Da parte sua Prodi rilancia la necessità dell’Ulivo per dare slancio nuovo ai progressisti (“La Stampa”, 22 gennaio 2017). Per rifare qualcosa che si ispiri all’Ulivo, è evidente a tutti che quella esperienza non si debba ripetere tal quale. Se nuovo Ulivo deve essere, dovrebbe ripensare strategie, alleanze, programmi, personale politico, e tenere conto degli errori e dei limiti che hanno caratterizzato l’esperienza tra il 1995 e il 2008 (l’Unione). E non si pensi solo alle colpe attribuite ai Bertinotti, D’Alema, Marini, Mastella. Né ci si leghi a totem particolari come primarie o maggioritario. Si pensi soprattutto a come si sono decise o attuate certe liberalizzazioni, a come si è subita l’ideologia del “meno Stato”, a come si è rincorso il mercato, a come si sono distrutti i corpi intermedi e le rappresentanze sociali, a come si è cercato di costruire una nuova dirigenza e un nuovo contenitore abbandonando semplicisticamente le esperienze e le radici del passato. Si pensi a strumenti più assembleari e partecipativi per nominare i responsabili e decidere linea politica e programma, a far partecipare di più e meglio i sostenitori e i militanti. Soprattutto, siamo sì “globali”, ma molto attenti al “locale”, sempre più emarginato e umiliato.
Come Berlinguer seppe compiere scelte in avanti rispetto a Togliatti, con l’eurocomunismo, con l’accettazione della NATO, con una politica di confronto con la DC più strategica rispetto all’opposizione inflessibile degli anni precedenti; come rispetto a Sturzo (pur stimandosi reciprocamente) La Pira indicò scelte economico-sociali e di welfare a volte in polemica con quelle del fondatore del PPI; come, pur collaborando, le scelte di Dossetti furono diverse rispetto a quelle di De Gasperi; e Moro, col suo stile, e anche con le sue apparenti lentezze, interpretò il ruolo dei democratici cristiani in modo nuovo rispetto ai leaders che lo avevano preceduto: così i riformatori di oggi (e fra questi i cattolici democratici) è bene che “inventino” strategie e progetti innovativi per rispondere all’accerchiamento del pensiero unico che, a tutti i livelli, contrasta con quello che Paolo VI, citando Maritain, definiva “sviluppo integrale di ogni uomo e di tutto l’uomo”, perciò di ogni popolo.
 
La storia delle strategie politiche è piena di questi scatti in avanti.
Fortunatamente non si resta fermi alle origini: altrimenti saremmo ancora a Labriola, a Turati, a Gramsci, e per il movimento sociale dei cattolici a Murri e Toniolo, se non a Rosmini e Gioberti. Anche il centrosinistra (partito unico o federazione) ha bisogno di un salto in avanti di contenuti a favore dei cittadini e non dei mercati. A favore dell’Europa dei popoli e non delle burocrazie e delle direttive poco intelligenti.
Le primarie di fine aprile attestano la ripartenza del PD con Renzi saldamente al comando. Per le caratteristiche che potrebbe sempre più assumere il PD neorenziano – un partito “liberal” e interclassista (come si diceva un tempo) – non mi scandalizzerebbe la nascita di un nuovo partito socialdemocratico. Mi pare però un errore che quest’ultima formazione si basi semplicemente su slogan, simboli, colori del passato, pensando a difesa di diritti sociali civili e sindacali in modo vecchio e superato. Come mi pare che al partito di Renzi non basti dichiararsi di centro e sviluppare una politica più liberale e meno statalista per diventare appetibile, e soprattutto utile a una politica di democrazia progressiva.

Ritengo che invece si debba partire dai problemi sociali, ritornare a rappresentare le speranze e le necessità delle persone e delle famiglie, “di tutto l’uomo e di ogni uomo”; ripensare allo sviluppo dei nostri territori e delle nostre comunità, affinché non vengano cancellati o stravolti o calpestati dal vento imposto dai mercati, dalla tecnica fine a sé stessa, dall’ideologia. 

Come scrive bene Giuseppe Davicino nel suo ultimo intervento su questo sito, siamo “nell’epoca in cui non basta definirsi riformatori anziché conservatori: ma in cui ciò che più conta è collocarsi nel campo del popolo piuttosto che in quello dell’establishment”. Perciò serve “un nuovo polo della politica italiana capace innanzitutto di una affilata capacità di controinformazione, capace di intendersi come espressione dei ceti lavoratori e della classe media che sta venendo spazzata via da una miope politica mercatista”.Rimescolando anche il campo popolare e quello socialista a livello europeo,forze“percepite sempre più come espressione di un disegno politico identico sui fondamentali, sebbene colorato da sfumature ideologiche diverse”.
Infatti, come afferma il senatore Walter Tocci, “nessuno a sinistra ha mai avuto la lungimiranza di riscrivere l’agenda delle politiche pubbliche, di cambiare gioco, di affermare una priorità mai vista prima: la cultura degli italiani nel mondo nuovo”.
 
 Ecco il salto in avanti che ci è richiesto: riavvicinare sensibilità, personalità, percorsi che da vent’anni hanno seguito sentieri diversi, ma tutti convergenti per originalità – economia civile, giustizia sociale, nonviolenza, autonomie locali sociali culturali, cura del creato, partecipazione e dialogo civile –  come valori dell’Europa futura.


Giuseppe Davicino - 2017-05-19
L'articolo di Carlo Baviera ci richiama ad uno impegno ricostruttivo di un modello di economia, e di democrazia, dal profilo molto alto, come quello che i cattolici democratici seppero realizzare negli anni che prepararono il ritorno alla democrazia e la rinascita del Paese. Una traduzione molto concreta, a mio avviso, di questo impegno oggi potrebbe essere la seguente: dopo sei anni di austerità, che si è dimostrata deleteria sul piano sociale, fallimentare sul piano dei conti pubblici e del contenimento del debito che invece è ulteriormente aumentato, disastrosa sul piano del lavoro, errata sul piano economico, producendo deflazione e ristagno della domanda interna, le forze riformatrici sono grado di imbastire un progetto per la prossima legislatura di un quinquennio di politiche espansive, a tutti i costi, meglio se con il consenso dell'Ue-Germania, ma disposti a tirare avanti anche in caso di disaccordo? E magari di rigore praticato non più sulla moltitudine dei deboli che non possono difendersi e che hanno già ampiamente dato, ma sui piani alti della scala sociale?