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Meno lavoro: oggi industria, ieri agricoltura

 
di Giuseppe Berta
 

Il professor Giuseppe Berta, docente di Storia contemporanea all'Università Bocconi di Milano, riconosciuto esperto dell’evoluzione industriale, economica e finanziaria del nostro Paese, ha risposto al questionario collegato al seminario “Se manca il lavoro…", organizzato dai Popolari piemontesi per comprendere i possibili sviluppi di una società in cui non c’è più lavoro per tutti. Pubblichiamo di seguito le domande con le sue risposte.
 
1.      In Italia e in tutto l’Occidente non ci sarà più lavoro per tutti. Parliamo di un lavoro continuativo e retribuito in misura tale da permettere a ciascuno una progettualità di vita. Due le cause della carenza di lavoro: l’automazione crescente dei processi produttivi, come aveva previsto Rifkin – e prima di lui Keynes – e la crescita economica dei Paesi emergenti, che riducono la fetta di ricchezza mondiale dei Paesi ricchi. È d’accordo con questa affermazione preliminare?
Non c'è dubbio che l'automazione stia radicalmente trasformando l'industria. Per esempio, dietro lo slogan, oggi molto in auge, di "industria 4.0" si adombra la prospettiva che siano le macchine ad azionare e a regolare le macchine, riducendo pertanto l'apporto del lavoro umano. Lo scenario del mondo della produzione vede così una tendenza strutturale alla riduzione della popolazione della manifattura. In un  certo senso, sta avvenendo nell'industria quanto è avvenuto decenni fa nell'agricoltura: la tecnologia ha ridotto l'occupazione, elevando la produttività.
2.      Non pensa che l’Occidente debba cominciare a fare i conti con una sua inevitabile decrescita? Più o meno “felice”, ma almeno equilibrata.
La globalizzazione ha trasformato la geografia della ricchezza, innescando un meccanismo redistributivo tra i continenti che sta premiando l'Asia e riducendo, in prospettiva, il grado di benessere di cui hanno goduto le società occidentali. Si tratta di processi redistributivi secolari che da sempre caratterizzano la storia economica del mondo. 
3.      Anche se il PIL dell’Occidente dovesse mantenersi – come sta facendo – agli stessi livelli, è innegabile che la distribuzione della ricchezza risulta sempre più diseguale. Come intervenire su tale grave squilibrio sociale, tenendo conto che è soprattutto il ceto medio che si sta impoverendo, in Europa come negli USA?
Al momento non esistono ricette per far fronte a queste trasformazioni. Nell'Italia degli anni '50 si pensò che la riduzione della domanda di lavoro agricolo avrebbe portato a una maggiore povertà della popolazione rurale. Al contrario, i lavoratori della terra sono stati inurbati e hanno migliorato la posizione economica. Non è detto a priori, quindi, che nel lungo periodo non possa avvenire qualcosa di analogo. Però ciò implicherebbe un riassetto complessivo dell'assetto e delle funzioni sociali, che al momento non è alle viste. A me sembra che l'immagine, di per sé ambigua, di "ceti medi" meriti di essere ridiscussa da cima a fondo.
4.      L’Italia, rispetto ad altri Paesi europei, sembra avere squilibri di reddito più marcati. Come si potrebbe intervenire, con la fiscalità o con provvedimenti sul sistema pensionistico, per ottenere maggiore giustizia sociale? Il mantenimento del principio dei  diritti acquisiti è giustificabile in una situazione di crisi, in particolare di crescente disoccupazione giovanile?
Cambiare l'Italia è difficilissimo, anche perché il vero cambiamento lo sta introducendo la demografia: abbiamo quasi un quarto della popolazione che è anziano. Ciò spiega i differenziali di reddito e di ricchezza e anche la polarizzazione crescente. Le nascite stanno crollando e i giovani tendono sempre più spesso a prendere la via dell'emigrazione. Un trend simile non si cambia certo con qualche provvedimento perché chiama in causa la natura stessa della odierna società italiana.
5.      Torniamo al lavoro che manca. Quello che c’è, può venire ridistribuito? Ridurre l’orario e trasformare gli straordinari in nuovi occupati è possibile?
All'interno dello scenario attuale non si può ridistribuire il lavoro. La causa è la polarizzazione fra il nucleo dei lavori ben pagati e di alta qualità e la massa dei lavori precari e poco impiegati. Evidentemente si possono redistribuire i secondi, generalizzando la povertà, e non i primi.
6.      Semplificare le norme e ridurre il costo del lavoro potrebbe creare nuova occupazione? O almeno servirebbe a mantenere il lavoro che c’è, agevolando chi intraprende?
Probabilmente semplificare la normativa aumenterebbe le possibilità di lavoro e di investimento, ma nessuno sa come fare. Vorrei rammentare che Pasquale Villari, grande storico dell'Ottocento che fu anche ministro dell'Istruzione, raccontava in un suo saggio che nel 1866 degli investitori americani volevano aprire delle attività economiche. Ebbene di fronte alla complessità della normativa, alla fine se ne andarono dicendo che l'Italia non era ancora un Paese pronto per gli affari. Villari correttamente osservava che nessuno sapeva come mettere mano al problema della Pubblica Amministrazione. Non è che da allora sia cambiato poi molto, si direbbe.
7.      Si insiste tanto sulla formazione, intesa soprattutto come preparazione alla flessibilità nelle competenze e capacità di apprendimento continuo. Ma come programmare i contenuti della formazione per un mondo del lavoro in rapidissima evoluzione?
Tutti dicono che l'unico modo per rafforzare la posizione dei lavoratori sul mercato del lavoro è quella di incrementare la loro formazione. Insomma, tutti dovrebbero essere capaci di aggiornarsi sempre. Recentemente l'"Economist" ha notato che però soltanto chi ha imparato da giovane a studiare e possiede il gusto di farlo, è capace di sottoporsi a una sorta di autoformazione. Ma chi gode di questa dote non ha bisogno di programmi specifici di training. Il problema è che dovrebbe essere la scuola a insegnare a studiare e a trasmettere il gusto di farlo, lasciandolo in eredità per sempre. Si tratta evidentemente di un nodo insoluto.
8.      Infine, se manca il lavoro, posto dalla Costituzione a fondamento della Repubblica, su cosa baseremo la nostra civile convivenza? L’adozione di un “reddito di cittadinanza” potrebbe essere un’idea valida? Ma lo ritiene economicamente sostenibile?
Ho imparato a non escludere più niente in via di principio. Dunque, non mi permetto di escludere nemmeno la possibilità che qualche forma di reddito di cittadinanza possa essere introdotta, là dove esistono le risorse per farlo. La conseguenza sarebbe però che creeremmo dei cittadini di serie B, o forse dei "non-cittadini". In questo modo, secondo me, si creerebbero le condizioni per assolutizzare il potere delle oligarchie, sostenute da coloro che un buon lavoro ce l'hanno e se lo tengono stretto.


giuseppe cicoria - 2017-05-17
Non capisco la meraviglia degli amici alle risposte dell'economista. Io ho sempre saputo, perché loro stessi lo anticipano quando sono interpellati, che l'economica è una filosofia su cui si fanno ipotesi su parametri prefissati che non sempre restano fermi nel tempo. Il fattore "K" collegato agli umori e sentimenti degli uomini non è preventivabile con certezza. Per questo coloro che si avventurano in regole da applicare riescono sempre a sbagliare. Gli economisti seri sanno benissimo che economica è una scienza del dopo e non del prima.
Aldo Cantoni - 2017-05-16
Come al solito gli "esperti" elencano in modo brillante (e come noi comuni mortali non sapremmo fare in tal modo) i problemi. Bello il commento di Griseri !! Dagli esperti io mi aspetterei suggerimenti per risolvere i problemi. Che i problemi siano complessi lo sapevamo già, per questo ricorriamo agli esperti. Ricordo umilmente che tra arrendersi ai problemi e risolverli totalmente esistono vie di mezzo. Ottimizzare le vie di mezzo è cosa molto seria e necessita di simulazioni sia matematiche che socio-politiche.
Andrea Griseri - 2017-05-15
Oh giusto cielo... Che dovremmo mai fare dunque? Abiurare e aderire a una di quelle sette che prescrivono il suicidio rituale? Moriremo plotiniani? Il meccanismo perverso dell'industria 4.0, dei sistemi esperti con capacità diagnostiche superiori a quelle di tanti rispettati luminari, delle stampanti 3d comunque dovrebbe arenarsi nelle proprie stesse contraddizioni; a chi venderanno i proprietari dei robot il frutto di questa stupefacente produttività? Per fortuna esiste il mercato: uno vende e uno compra e bisogna fare in modo di mettere in mano a chi compra un po' di cartamoneta. Ma se poi i cittadini nullafacenti e sovvenzionati si sentono discriminati e si deprimono? O se al contrario ci prenderemo tale gusto a stare con le mani in mano tutto il giorno che nessuno vorrà più studiare e pochi aspireranno a far parte della classe dei lavoratori privilegiati? Ci sarebbe materia per un romanzo!