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Moro e la fine della Prima Repubblica

 
di Guido Bodrato
 

Il 9 maggio ci ha fatto ricordare Aldo Moro, a quasi quarant’anni dalla sua morte, e ci fa riflettere sulle scelte politiche che hanno caratterizzato la sua vita. A questo ci inducono anche i dibattiti sul declino della Prima Repubblica e della “Repubblica dei partiti", diventato irreversibile con l’addio del  leader più attento ai mutamenti che - a partire dalla contestazione del ’68 e dal referendum del ’74 - hanno avviato la “lunga transizione" che si è conclusa con il referendum sulla legge elettorale (1991) e con l’esplosione della “questione morale" (1993/94).
 
Moro aveva compreso che la “terza fase" della vita democratica, dopo le fasi del centrismo degasperiano e del centro-sinistra, si stava caratterizzando come passaggio dalla “democrazia difficile" alla democrazia dell’alternanza; e che questo passaggio avrebbe messo in discussione il sistema politico che – per mezzo secolo – aveva avuto il suo perno nella Democrazia cristiana. Il referendum sul divorzio (1974) aveva reso più evidente, con l’isolamento della DC, il declino di un ciclo politico costruito sull’architrave democristiano.
Riflettendo su quel referendum, che autorevoli esponenti della DC avevano affrontato nella convinzione di rinsaldare l’unità politica dei cattolici, Moro aveva espresso il timore che si stesse invece approfondendo la divisione dell’elettorato cattolico. E aveva sostenuto che in un momento nel quale le stesse istituzioni democratiche venivano prese di mira “dalla minaccia fascista e dall’estremo limite della sinistra, con un attacco tanto misterioso quanto efficace”, la questione più importante riguardava “la solidarietà dei partiti democratici e la necessità di non mettere in discussione la tenuta dello Stato”.
 
Capire e interpretare i “tempi nuovi” era per Moro il compito della politica. Capire le ragioni dell’esaurirsi del centro-sinistra; capire la protesta giovanile e le lotte operaie e andare alle radici delle questioni del tempo “che ci è dato vivere”. Capire perché “attenti come siamo a ogni evoluzione democratica, guardiamo con particolare attenzione là dove sono ideali e aspirazioni che riguardano l’avvenire della società e la difesa della dignità umana”, voleva dire guardare al futuro di questo Paese.
I grandi mutamenti della società stavano mettendo in crisi gli stessi  meccanismi istituzionali; per Moro “non c’è dubbio che siamo passati da una società per così dire verticale a una società orizzontale, con potere diffuso e disperso; e il referendum ha reso evidenti mutamenti epocali che hanno messo in crisi l’unità politica dei cattolici e anche le istituzioni della Repubblica” a partire dal ruolo del Parlamento.
Per capire il senso di quella svolta storica era decisiva l’unità della DC; ma per Moro “l’unità deve essere raggiunta nella libertà e non con l’autoritarismo o addirittura con la compressione della dittatura (...) e nessuno può farsi l’illusione di tornare a una democrazia semplice e rigorosamente lineare”. Tuttavia Moro aggiunge: “Non credo molto, considerata l’imponenza del fenomeno, in rimedi istituzionali, soprattutto se si pensi a riforme costituzionali difficili da immaginare, da adottare, da calare nella realtà (…) a parte una sempre latente pericolosità per la tenuta del sistema democratico”. Moro temeva l’indebolimento del ruolo della DC, ma temeva soprattutto la polemica populista sul “regime dei partiti”, anche perché questa polemica aveva già assunto connotati plebiscitari.
 
Aldo Moro ha parlato più volte della violenza, della violenza verbale che sarebbe  degenerata in violenza di piazza, e dell’emergenza “più propriamente politica” che stavano logorando le stesse istituzioni repubblicane. E aveva concentrato la sua attenzione su come si erano introdotte “per la prima volta dopo trent’anni, nel tessuto della nostra vita democratica, alcune forme di dissenso violento, l’abbandono da parte di alcuni di quella legge della persuasione che è il contrassegno della vita democratica del Paese, di quella disponibilità al confronto che sembrava un bene definitivamente acquisito”. E aveva notato che “vi è chi, in questo contesto storico, pensa che alcuni nodi della storia debbano essere tagliati, non sciolti. Questo è un fatto politico (…) che come il lampo preannuncia il tuono… Una problematica che in obbedienza a una legge di interpretazione dei fatti politici, ci ha indotto ad estendere l’ambito delle coalizioni spingendole su un terreno democratico più a sinistra”.
E pensando a una “terza fase” che già si era annunciata con il risultato del referendum e poi con le elezioni regionali del ’75, Moro immaginava la necessità di una politica del confronto “con tutte le forze politiche, ma in particolare con il PCI”, un confronto che nasce dalla necessità, ma non significa che queste due forze cessino di essere tra loro alternative.
 
Quella politica della “solidarietà nazionale” è stata avversata da destra come se si trattasse di una “strategia della ritirata”; mentre da sinistra si accusava il leader democristiano di essere interessato solo all’egemonia del suo partito e al logoramento dell’avversario storico. Leopoldo Elia, commentando i discorsi di Moro, ha respinto l’interpretazione di quanti, da destra, “assumendo come parametro il partito trionfante del 18 aprile, hanno parlato di un Moro perennemente sulla difensiva, chiamato ad amministrare la decadenza, con un atteggiamento di abbandono al moto inarrestabile della storia”; e l’interpretazione di quanti, da sinistra, hanno parlato di un personaggio gattopardesco, indifferente ai contenuti, che infine avrebbe pagato i limiti di questa politica.
In realtà Moro aveva anticipato una risposta a queste critiche: riteneva essere una strada obbligata un più impegnativo confronto tra i partiti dell’arco costituzionale, poiché se si fosse portata all’estrema conseguenza la tensione ad essere alternativi della DC e del PCI, in una situazione di emergenza sociale, economia e politica, i rischi per la pace sociale e per le istituzioni democratiche sarebbero diventati incontrollabili.
Da questa riflessione parte l’appello del ’78, all’assemblea dei gruppi democristiani della Camera e del Senato. La più importante garanzia per l’identità della DC, in un passaggio della vita politica di cui non era possibile prevedere l’esito, resta l’unità del partito… Per sbloccare una situazione che esponeva lo Stato democratico al dilagare della violenza terroristica, si trattava di sottoscrivere una tregua, sulla base di una intesa programmatica che aveva dei limiti, con riferimento alle responsabilità di governo e alla politica estera che non potevano essere superati. E dei punti di contrasto, quali l’insistenza di Berlinguer per introdurre “elementi di socialismo” nel sistema economico.
“Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo (…) ma cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato con tutte le sue difficoltà. Quello che è importante è preservare  l’anima, la fisionomia, il patrimonio ideale della Democrazia cristiana…”.
Moro riuscì a convincere i parlamentari democristiani a superare i dubbi e ad approvare la proposta della segreteria del partito, ma non i parlamentari comunisti che avrebbero dovuto votare un governo di cui non facevano parte, con la sola garanzia di Moro. L’esito del voto di fiducia è rimasto incerto fino all’alba del 16 marzo, quando la strage di via Fani e il sequestro di Aldo Moro convinceranno tutto l’arco costituzionale a un voto che avrebbe rilanciato la solidarietà nazionale, a difesa delle istituzioni repubblicane. D’altra parte, Berlinguer aveva riconosciuto che ad Est si era “esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre”, e che la NATO era ormai una garanzia di libertà anche per i comunisti italiani.
 
Con il sequestro e con la morte di Moro (16 marzo/9 maggio), le Brigate rosse hanno colpito il solo progetto elaborato per rinnovare il sistema politico e per rilanciare la democrazia rappresentativa. Un progetto che si reggeva sul difficile equilibrio tra l’esigenza del rinnovamento e quella dell’unità della DC. Moro era il più credibile interlocutore di Berlinguer, del leader comunista cui la strategia della solidarietà nazionale aveva assegnato un compito anche più difficile: sostenere il governo Andreotti senza farne parte, sulla base di un’intesa che riguardava la transizione alla democrazia compiuta, nella convinzione che questa intesa avrebbe portato oltre il sistema fondato sulla centralità della DC.
La politica morotea segnava già la fuoriuscita da quello che la polemica della sinistra storica aveva definito il “regime democristiano” e che i terroristi rossi considerano espressione delle “multinazionali”. È stato Moro a dire “il nostro non è l’anticomunismo della destra, è un anticomunismo democratico”. Uno dei più seri studiosi delle istituzioni democratiche, Roberto Ruffilli, anche lui ucciso dalle BR, riflettendo sul pensiero del leader democristiano, ha affermato che Moro “ha sempre mantenuto un certo distacco nei confronti di ogni meccanica applicazione del bipolarismo destra-sinistra, e ha cercato di fare i conti con una pluralità di partiti a fondamento popolare e con una differenziazione tra gli stessi radicata in una cultura politica”. Moro “si era convinto che le riforme istituzionali ed elettorali possono favorire la stabilità della maggioranza, l’alternanza degli schieramenti e la governabilità, ma non possono predeterminare gli esiti della politica, specie in presenza di straordinari cambiamenti di orizzonte e delle sfide della globalizzazione”. Con questi problemi dobbiamo ancora fare i conti.
Mentre con la fine della democrazia dei partiti stanno uscendo di scena i politici che hanno considerato la Costituzione e il Concilio le coordinate fondamentali del loro pensiero e della loro azione politica. Di quei politici, della  “generazione montiniana” (Paolo VI), Aldo Moro è stato indubbiamente il politico che è rimasto radicato più profondamente nei nostri pensieri.


Andrea Griseri - 2017-05-15
In fondo la distruzione dell'unica visone politica capace di assicurare il rinnovamento della vita democratica ha aperto la strada alla rivoluzione neoliberista covata nell'ombra (i cosiddetti Chicago boys di Milton Friedmann stavano per spargersi nel mondo, e ancora non lo si sapeva, incuranti di Costituzioni o Concilii); credo che politicamente l'idealtipo delle multinazionali abbia un debito di gratitudine verso quanti spararono e assassinarono in via Fani. A meno che accanto ai brigatisti non vi fosse "anche" una versione in carne ed ossa di qualche idealtipo. Una riedizione in Italia del centrosinistra ma questa volta nel segno dell'alternanza e della costruzione di un'economia inclusiva probabilmente era avvertita come un pericolo da scongiurare, ché avrebbe potuto fornire un modello per altri paesi. Grazie a Bodrato per questa interessantissima ricostruzione del pensiero politico di Moro, così ricco di "astrazioni concrete" tutte orientate a comprendere e modificare la storia.
Adriano Di Saverio - 2017-05-12
Con la consueta lucidità Guido Bodrato ha evidenziato alcun degli aspetti più interessanti del pensiero politico di Aldo Moro. Personalmente quando si rievoca la figura dello statista democristiano, mi pongo sempre due domande di difficile risposta. La prima: quale sarebbe stato il destino politico, economico, sociale, dell'Italia se Moro non fosse stato barbaramente assassinato, quale l'evoluzione della politica di "solidarietà nazionale", quale il ruolo del nostro paese nel consesso internazionale? La seconda: poche settimane fa, la commissione parlamentare sull'omicidio Moro, presieduta da Beppe Fioroni, ha smontato ogni certezza sul rapimento e l'uccisione del leader DC. Dopo cinque processi più si indaga e più il quadro diventa fosco e incerto. Gero Grassi, uno dei componenti della commissione, ha commentato: "In via Fani, c'erano anche le Brigate Rosse". Anche. Chi e perché ha ordinato il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro?
giorgio merlo - 2017-05-12
Semplicemente un pezzo da "incorniciare". Anche perchè le riflessioni di Guido sul pensiero politico di Moro interpellano oggi la coscienza di tutti i democratici. Soprattutto quelli di ispirazione cristiana e popolare.