Forse il 30 aprile 2017 è nato ufficialmente quel partito che Ilvo Diamanti pronostica ormai da tempo. Ovvero, il "PdR". Il partito di Renzi. Del resto, la doppia vittoria con gli iscritti prima e le primarie poi hanno confermato un trend che era noto quasi a tutti e che si sintetizza attorno a un felice slogan: "il PD è Renzi e Renzi è il PD". E così è stato. Il 66% tra gli iscritti e oltre e il 70% tra i cittadini elettori non fa che rendere palese quello slogan.
Ora, al di là della partecipazione ai gazebo - oltre un milione in meno rispetto alle primarie del 2013 - che resta comunque alta se confrontata con i modelli organizzativi di altri partiti, il vero punto politico per il futuro e la prospettiva del Partito Democratico resta la sua natura. Cioé il profilo di questo partito. E questo seppur dopo la sconfitta alle amministrative, la sconfitta del referendum e la scissione a sinistra. Ma anche e soprattutto dopo la vittoria plebiscitaria, anche se attesa e scontata, alle primarie dello scorso 30 aprile. E quindi, la domanda centrale resta sempre quella. E cioè, dopo il 30 aprile nasce il quarto grande partito "personale" nella politica italiana dopo Forza Italia, Movimento 5 stelle e Lega oppure ci sarà ancora spazio per un "partito plurale" o partito comunità come viene comunemente definito?
Questa resta la vera domanda a cui va data una risposta politica, culturale e organizzativa. E questo al di là delle chiacchiere di circostanza, della sola propaganda e della ipocrisia di rito.
Sono almeno tre, comunque, i versanti su cui si gioca questa sfida politica.
Innanzitutto in un "partito plurale" le minoranze non sono grigi ornamenti ma rappresentano un aspetto essenziale per il buon funzionamento del partito. Se dovesse prevalere la tesi che la minoranza viene "scelta" dal vertice del partito perché più accondiscendente o che le viene sistematicamente negato il diritto di cittadinanza perché offusca o indebolisce il messaggio del "capo", è indubbio che il partito sarebbe a tutti gli effetti un movimento "personale". Semmai, al contrario, è profondamente democratico quel partito che rispetta la minoranza interna e che, soprattutto, trae dal confronto e dalla dialettica interna le ragioni di fondo per costruire il progetto politico dell'intero partito. Verremo cosa capiterà al riguardo a cominciare dai prossimi giorni.
In secondo luogo un partito non personale valorizza realmente il pluralismo culturale interno. E questo non solo perché questo elemento risponde allo Statuto del PD ma per la semplice ragione che è proprio dal pieno riconoscimento del pluralismo delle diverse culture che un partito come il PD trae la sua ragion d'essere. Se il tutto si riduce al valore aggiunto del capo, alle sue capacità salvifiche e miracolistiche e al suo decisionismo, inevitabilmente sarebbe l'intero partito a uscirne ridimensionato e stravolto rispetto alle sue ragioni originarie e fondative. Non credo che il modello berlusconiano – cioé prima si è fedeli al capo e poi si può declinare la propria sensibilità culturale e ideale – possa essere la bussola che orienta un grande partito popolare, democratico e plurale come il PD.
Infine il progetto politico del Partito Democratico. Non si può appaltare al solo "capo" o al solo "leader". Anche quando viene scelto dalle primarie con un voto plebiscitario. Tocca all'intero partito, nelle sue varie articolazioni, costruire ed elaborare la proposta politica. Tocca cioè al leader del partito "guidare" e non "comandare" questa comunità politica, per dirla con Gianni Cuperlo. Del resto, la cosiddetta natura "inclusiva" del partito la si misura esclusivamente da questo aspetto. Dalla capacità, cioè, di saper coinvolgere tutti nelle costruzione della "casa comune". Perché questo non è un aspetto secondario o marginale per la vita e per la freschezza di un partito ma è un elemento decisivo e discriminante per la stessa prospettiva di una grande comunità democratica come il PD.
Ecco, dalla risposta concreta e non propagandistica a questi tre elementi noi sapremo in breve tempo se il PD, dopo queste primarie, resta un partito plurale e realmente democratico oppure se si trasforma definitivamente in un partito personale o del leader. Cioè nel PdR.
E la risposta a questi elementi non può essere che nel PD esistono già una miriade di correnti e quindi per questa semplice ragione è già di per sé un movimento plurale. No, perché tutti sanno che le molteplici correnti sono prevalentemente un semplice prolungamento di singoli leader, del tutto avulse da una precisa caratterizzazione politica e culturale e da un altrettanto fecondo radicamento sociale. Correnti che, peraltro, hanno come unico obiettivo quello di produrre tessere e accattivarsi le simpatie del capo per partecipare alla spartizione di posti e prebende.
Dunque, nella scelta tra il "partito personale" e il "partito plurale" si gioca una partita decisiva per il futuro e la prospettiva del Partito democratico. E molti elettori, molti militanti e molti cittadini simpatizzanti del centrosinistra aspettano anche dalla soluzione di questo nodo le ragioni per riconoscersi nel PD e per continuare a fare politica nel PD e per il PD. |