Le risposte di Daniele Ciravegna, docente di Economia politica all'Università di Torino, al nostro questionario sulla società in cui non vi è più lavoro per tutti (che potete recuperare in questa Sezione) hanno suscitato due osservazioni di fondo a Giuseppe Ladetto che, come i lettori di Rinascita popolare ben sanno, è un attento osservatore dei problemi posti dall’economia globalizzata. Ecco il suo intervento, cui segue la risposta di Ciravegna.
Non essendo particolarmente ferrato in ambito economico, non mi permetto di fare osservazioni nel merito delle risposte fornite dall’amico Daniele Ciravegna al questionario sul lavoro che manca.
Tuttavia poiché la crisi economica in cui ci troviamo a vivere è solo un aspetto di una più generale crisi che si riflette nei più diversi ambiti, voglio porre due questioni di ordine non economico che toccano comunque aspetti trattati nel suo ampio intervento.
Prima questione. Viene detto che “si stima che oggi vi siano beni prodotti nella misura atta a soddisfare i bisogni di base di una popolazione di dimensioni ben superiore ai 7 miliardi e mezzo di persone”. Ora, Luciano Gallino (riportando un’opinione largamente condivisa tra gli ambientalisti e non solo) ha più volte scritto che se l’intera popolazione del pianeta dovesse consumare (e di conseguenza produrre inquinanti e cataboliti) quanto un americano medio, non basterebbe il nostro pianeta ma ne occorrerebbero quattro. Anche se tutti consumassero quanto un europeo, pur in tempo di recessione, la situazione non sarebbe molto diversa.
Se le cose stanno così, una redistribuzione, non tanto della produzione ma delle risorse ad essa necessarie, abbasserebbe drasticamente i consumi dei Paesi dell’Occidente sviluppato e, per quanto ciò sia giusto (ma come definire i fabbisogni di base in modo condiviso?), avrebbe conseguenze pesantissime sul sistema produttivo e su quello politico.
Oggi, però, molti dicono che la nuova economia, imperniata sui servizi, sulle comunicazioni e sulla smaterializzazione dei beni prodotti, rende possibile una crescita illimitata dei consumi, anche a fronte di una aumento demografico (che a metà del secolo in corso porterà la popolazione del pianeta a oltre 9 miliardi). Altri confidano nello sviluppo tecnologico grazie al quale non ci saranno mai problemi in tema di disponibilità di risorse e di beni di consumo.
Mi chiedo se il professor Ciravegna sia d’accordo con queste posizioni o a quali conseguenze ritenga porterebbe una equa redistribuzione delle risorse (anche ammettendo che in qualche misura possano crescere)?
Io credo che l’esistenza di limiti allo sviluppo materiale resti al momento un problema aperto, e che altrettanto rimanga improbabile la possibilità di risolverlo con il solo ricorso alla tecnica. A quanti sostengono che l’economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi ambientali, e che la fame e la miseria nel mondo troveranno soluzione semplicemente con la crescita del mercato, il Pontefice ha risposto (nell’enciclica Laudato si’) che “il mercato da solo non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale”, ed ha aggiunto che “non ci si rende conto a sufficienza di quali siano le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita tecnologica ed economica”.
Seconda questione. Viene detto che “in tempi di mondializzazione, proprio per il fondamento sociale dell’esistenza umana, il bene di ciascuna persona non può non essere naturalmente interconnesso con il bene dell’intera umanità (...) quindi il bene comune non può essere che il bene comune universale, cioè dell’intera famiglia umana”.
In un mondo, fortunatamente non ancora completamente omologato all’insegna del dominante pensiero neoliberale che connota l’Occidente, sono presenti differenti culture. In ognuna di esse, il bene della persona è ispirato a differenti valori, così come a valori completamente diversi dagli attuali è stato concepito il bene comune nel corso della storia europea. Voglio ricordare che il pluralismo culturale (che non riguarda i singoli individui ma implica l’esistenza di molteplici comunità ancorate a un territorio, in ciascuna delle quali una cultura ha modo di esprimersi e di durare nel tempo) è fondamentale poiché rappresenta in ambito sociale l’equivalente della biodiversità in ambito naturale. La mondializzazione o la cosiddetta globalizzazione (che ha al centro un mercato planetario divenuto l’unico fattore di regolazione in ogni ambito) distrugge, in funzione del trionfo del mercato, proprio il pluralismo culturale, poiché mira allo sradicamento delle singolarità collettive, alla progressiva soppressione delle differenze culturali, e perfino delle differenze di religione.
Non si può non vedere il nesso strettissimo esistente tra mondializzazione, cosmopolitismo, omologazione e individualismo spinto ad estremo egoismo. Come ha riconosciuto Giacomo Leopardi scrivendo in polemica con gli illuministi: “Ed ecco un’altra bella curiosità della filosofia moderna. Questa signora ha trattato l’amor patrio d’illusione. Ha voluto che il mondo fosse tutta una patria (...). L’effetto è stato che in fatti l’amor di patria non c’è più, ma in vece che tutti gl’individui del mondo riconoscessero una patria, tutte le patrie si son divise in tante patrie quanti sono gl’individui, e la riunione universale promossa dall’egregia filosofia s’è convertita in una separazione individuale”.
Ed ora la risposta di Daniele Ciravegna alle osservazioni proposte.
Giuseppe Ladetto ha sollevato due questioni che discendono dalla lettura della mia risposta ai quesiti sul futuro del lavoro nel mondo.
I) Se esistono o no limiti alla crescita dell’attività produttiva.
A mio avviso, il mito del progresso materiale illimitato è sbagliato anche alla luce della teoria economica. Progresso materiale illimitato significa la realizzazione di una situazione in cui v’è una quantità infinita di beni prodotti.
Ora, sintetizzando al massimo, si deve prendere atto che la quantità di beni prodotti è data dal più basso fra i seguenti quattro valori: capacità produttiva del lavoro o reddito di piena occupazione (data dalla moltiplicazione del numero dei lavoratori disponibili per la produttività pro capite del lavoro); capacità produttiva del capitale (data dalla quantità di capitale disponibile moltiplicata per la sua produttività unitaria); quantità di produzione che chi decide vorrebbe realizzare, poiché rappresenterebbe la quantità ottimale, in quanto massimizzante la sua funzione obiettivo; domanda aggregata. Le due ultime grandezze potrebbero anche avere un valore tendente a infinito, ma le prime due no, poiché né la quantità di fattori produttivi disponibili né la loro produttività vengono mai assunti dalla teoria economica, che abbia un minimo di realismo epistemologico, come tendenti a essere infinitamente grandi. Quindi, o l’uno o l’altro dei due tetti riguardanti il potenziale produttivo dei fattori (di fatto, il più basso fra i due) farà sì che la quantità di beni producibili non possa mai essere infinitamente grande, nonostante i possibili (infiniti) desideri di chi domanda o del soggetto cui spetta decidere quanto produrre.
Però l’assunto della limitatezza (cioè valore non infinitamente grande) del capitale globalmente disponibile – che viene desunto, da taluni economisti, dal Primo principio della termodinamica, secondo il quale, “l’energia di un sistema termodinamico non si crea né si distrugge, ma si trasforma, passando da una forma all’altra” e che Nicholas Georgescu-Roegen ha rafforzato con quello che ha definito come Quarto principio della termodinamica, secondo il quale, se è vero che, come l’energia, la materia presente non scompare, ma si trasforma, è anche vero però che la materia si degrada continuativamente e irreversibilmente in materia non più utilizzabile a fini umani – vale per un sistema termodinamico isolato, non per uno aperto, quale la Terra potrebbe divenire, aprendosi all’intero universo. Mutatis mutandis, lo stesso potrebbe dirsi riguardo al fattore lavoro disponibile e ai due moltiplicatori dati dalle produttività dei fattori.
A differenza dei limiti dati dalla domanda e dai livelli produttivi ottimali, che potrebbero anche non esistere nella realtà, l’ipotesi dell’inesistenza di limiti della capacità produttive del lavoro e del capitale ci porterebbe in un ambito fantascientifico, oltretutto pretendendo di applicare meccanicisticamente all’ambito economico principi e teoremi propri della fisica, senza alcuna considerazione del fatto che l’attività economica è un fenomeno umano e non fisico, come la Dottrina sociale della Chiesa non si stanca mai di ricordare e sottolineare.
II) Se la globalizzazione non sia fonte di distruzione del pluralismo culturale.
A mio avviso, la globalizzazione – nel senso di ampliamento a livello mondiale dei diversi fenomeni in cui si estrinseca l’attività delle persone, coinvolgendo tutte le persone, nella loro integralità – ha naturalmente eliminato o attenuato di molto le barriere che facilitavano la creazione di ambienti culturali autonomi e, appunto perché sufficientemente separati dagli altri, capaci di conservare, nel tempo, le proprie peculiarità. La globalizzazione ha permesso la conoscenza reciproca delle diverse culture presenti; controverso è se la globalizzazione influenzi, o no, la cultura, le singole culture. La cultura umana, direi di no, ché la globalizzazione è il prodotto di questa; è espressione della cultura umana prevalente, sempre attenta e curiosa di conoscere nuove realtà, nuove esperienze: la cultura umana, che ha dimensione, non individuale, ma collettiva, trova alimento per il suo sviluppo nell’ampliamento delle conoscenze di nuove collettività, e quindi la globalizzazione, allo stesso tempo, ne è conseguenza e fonte di ulteriore sviluppo.
Quanto alle singole culture, si può dire che la continuazione della loro esistenza è, per un verso, facilitata dalla presenza, nelle strutture culturali aperte, che sono le più attive, del principio di tolleranza. Però vale anche il principio della selezione evoluzionistica, per cui, entrando in contatto fra di loro, le diverse culture si contaminano e questa contaminazione porta anche a mutazioni che, nelle culture più deboli (deboli in termini di potenza comunicativa, date le possibilità di accesso ai mezzi di comunicazione di massa) può voler dire scomparsa per “selezione naturale”. Manifestazione evidente di questo è la realtà del tempo presente, che vede l’affermazione della cultura occidentale in molte zone extraeuropee; prova ne è l’affermazione dell’inglese quale lingua veicolare usata a livello mondiale, e lingua significa cultura.
Per fortuna, la realtà del tempo presente ha visto svilupparsi la coscienza della rilevanza della pluralità delle culture, che è l’equivalente, in ambito sociale, della biodiversità in ambito naturale: entrambe sono essenziali affinché non si estinguano la fertilità della cultura e la fertilità della natura universale. |