Il questionario collegato al seminario “Se manca il lavoro…", organizzato dai Popolari piemontesi per comprendere i possibili sviluppi di una società in cui non c’è più lavoro per tutti, ha ricevuto ampie e approfondite risposte da Daniele Ciravegna, docente di Economia politica all’Università di Torino. Si può notare un elemento che nella trattazione dell’economista torinese lega i diversi aspetti trattati rispondendo alle otto domande: il riferimento costante al concetto di “bene comune".
1. In Italia e in tutto l’Occidente non ci sarà più lavoro per tutti. Parliamo di un lavoro continuativo e retribuito in misura tale da permettere a ciascuno una progettualità di vita. Due le cause della carenza di lavoro: l’automazione crescente dei processi produttivi, come aveva previsto Rifkin – e prima di lui Keynes – e la crescita economica dei Paesi emergenti, che riducono la fetta di ricchezza mondiale dei Paesi ricchi. È d’accordo con questa affermazione preliminare?
2. Non pensa che l’Occidente debba cominciare a fare i conti con una sua inevitabile decrescita? Più o meno “felice”, ma almeno equilibrata!
Dal Settecento in poi, là ove si sono realizzati gli incrementi di produttività che hanno portato le economie a decollare, questi incrementi si sono ripartiti, in parte, aumentando i salari reali e, in parte, riducendo le ore di lavoro pro capite. Ciò si è interrotto negli Anni Ottanta del secolo scorso, ma non potrà non essere ripreso, e tanto prima avverrà tanto meglio sarà.
Di questo parlerò più precisamente nella risposta alla Domanda 5.
Qui parlerò degli effetti che, a mio avviso, la globalizzazione ha avuto sulle diverse aree del Pianeta e che possono essere sintetizzati nel modo seguente. La globalizzazione ha portato alla suddivisione del sistema economico mondiale in tre gruppi di Paesi, che presentano livelli di benessere economico assai differenti fra di loro: i) economie (i Paesi dell’Occidente sviluppato) con elevata quantità pro capite di beni prodotti e disponibili per la popolazione; ii) economie (in specie, parte dell’Africa sub-sahariana, ma non solo) con basse (insufficienti) quantità pro capite di beni prodotti e disponibili per la popolazione; ma anche: iii) economie (alcune zone della Cina, per esempio) con medie quantità pro capite di beni prodotti, però con basse quantità di beni disponibili per la popolazione, poiché presentano una forte eccedenza delle esportazioni sulle importazioni.
La disponibilità di beni è alta (primo gruppo di Paesi) là ove il lavoro è ben retribuito ed è bassa (secondo e terzo gruppo di Paesi) là ove il lavoro è scarsamente retribuito. Conseguenza di ciò è che le imprese del primo gruppo di Paesi hanno difficoltà a mantenere la competitività in termini di prezzo rispetto a quelle degli altri due gruppi e, conseguentemente, tendono a lasciare i primi Paesi per localizzarsi in quelli del secondo e terzo gruppo (e, in particolare, del terzo, ove la produttività del sistema economico è assai superiore rispetto a quella del secondo). Quindi, in Occidente, per un verso, si perde produzione e occupazione per via dell’uscita delle imprese verso gli altri due gruppi e, per altro verso, le imprese che rimangono hanno comunque grosse difficoltà a mantenere la loro posizione nei mercati internazionali, e si ha perciò una duplice causa di perdita di produzione e di occupazione.
Di fronte a questa situazione di rivolgimento epocale, due sono le risposte che possono essere date.
I) La prima è che si accetti la redistribuzione della produzione mondiale in direzione più equilibrata: si stima che oggi vi siano beni prodotti nella misura atta a soddisfare i bisogni di base di una popolazione di dimensioni ben superiore ai 7 miliardi e mezzo di persone, quali siamo attualmente, ma vi sono 800 milioni di persone che soffrono di denutrizione grave e permanente. Queste vivono nei paesi del secondo e terzo gruppo (oltre che, come minoranze, in Paesi del primo gruppo) e gli spostamenti di produzione verso di essi porterebbe a una redistribuzione della produzione a loro favore. Nei Paesi del primo gruppo, il dover competere in termini di prezzo con i beni che provengono dagli altri due gruppi di economie non potrà che deprimere il livello delle retribuzioni del lavoro al proprio interno. Una redistribuzione con perdita del livello di benessere economico in Occidente e guadagno nei Paesi del secondo e terzo gruppo, a meno che, in questi ultimi, la maggiore produzione venga destinata (o continui ad essere destinata) all’esportazione in eccedenza rispetto alle importazioni.
II) Se la predetta perdita per i Paesi del primo gruppo non è da questi gradita, essi devono puntare sulla seconda risposta: puntare sulla qualità dei prodotti, non tanto nel senso di spostarsi sulla gamma di produzione di élite (per definizione, di dimensioni quantitative limitate), ma nel senso di avere, anche nelle produzioni di grandi quantità, requisiti di qualità superiore, così da poter essere venduti a prezzi più elevati rispetto alla concorrenza estera. Si noti bene che ovviamente non si parla genericamente di qualità, ma di qualità dei beni prodotti; non già della qualità dei processi produttivi e organizzativi, i quali influiscono sui costi, perciò sui prezzi, e sono quindi necessari per competere in termini di prezzo.
Se la concorrenza potrà essere battuta anche applicando prezzi più alti (questo è il significato pragmatico della competizione in termini di qualità), si potranno mantenere livelli di redditi, e quindi livelli di benessere economico, più elevati.
La scelta fra le due linee sopra indicate non è, ovviamente, una questione tecnica: entrambe sono percorribili. Diversamente dai fenomeni fisici naturali, che normalmente presentano una sola via da percorrere (mettendo in comunicazione due vasi identici contenenti lo stesso liquido, ma con livelli diversi dello stesso, la conseguenza inevitabile è il livellemento dei due livelli), l’uomo normalmente sa costruire più di una soluzione e la scelta fra le diverse soluzioni è di natura politica perché è di natura valoriale. Nella fattispecie, dipende dai valori che hanno le popolazioni dei paesi democratici (purché i loro eletti negli organi di governo rappresentino correttamente le istanze valoriali della maggioranza della popolazione di riferimento) o, in un paese non democratico, dai valori propri del gruppo di potere.
È evidente, in via di principio, che la prima soluzione prevarrà se i valori posseduti dalle comunità economicamente sviluppate fanno riferimento al bene comune universale; prevarrà il secondo se i valori posseduti dalle comunità economicamente sviluppate fanno riferimento al bene individuale o al bene comune della comunità cui si appartiene..
Ora, a ben pensare, se si vuole evitare che i diversi beni comuni particolari abbiano vita effimera, la dimensione finale non può essere che quella universale: in tempi di mondializzazione, proprio per il fondamento sociale dell’esistenza umana, il bene di ciascuna persona non può non essere naturalmente interconnesso con il bene dell’intera umanità, per cui il bene di ciascuna persona risulta naturalmente interconnesso con il bene dell’intera umanità. Quindi il bene comune non può essere che il bene comune universale, cioè dell’intera famiglia umana. Il pensare altrimenti significherebbe tentare di mantenere l’umanità suddivisa in tanti comparti pressoché isolati, mentre la mondializzazione delle comunicazioni ha da tempo fatto crollare le barriere che un tempo permettevano l’esistenza del predetto isolazionismo, privilegiato per alcuni e infausto per altri.
3. Anche se il PIL dell’Occidente dovesse mantenersi – come sta facendo – agli stessi livelli, è innegabile che la distribuzione della ricchezza risulta sempre più diseguale. Come intervenire su tale grave squilibrio sociale, tenendo conto che è soprattutto il ceto medio che si sta impoverendo, in Europa come negli USA?
4. L’Italia, rispetto ad altri Paesi europei, sembra avere squilibri di reddito più marcati. Come si potrebbe intervenire, con la fiscalità o con provvedimenti sul sistema pensionistico, per ottenere maggiore giustizia sociale? Il mantenimento del principio dei diritti acquisiti è giustificabile in una situazione di crisi, in particolare di crescente disoccupazione giovanile?
La distribuzione del reddito si è andata polarizzando, a partire dagli Anni Novanta, nella direzione di vedere aumentata la quota che va ai redditi alti; a discapito dei redditi medio-bassi. Questo è avvenuto in misura contenuta nei Paesi del Nord Europa; di più nei Paesi del Centro Europa; di più ancora nei Paesi del Sud Europa, del Regno Unito e soprattutto negli USA. In termini di distribuzione funzionale, ciò è stato causato dalla redistribuzione del reddito a favore dei possessori dei capitali e a danno dei lavoratori dipendenti (fatta eccezione per i top manager). Se interventi sulla distribuzione del reddito devono essere introdotti (come è necessario che avvenga, alla luce del bene comune), la direzione non può essere che l’attuazione di una politica fiscale che vada a gravare sui redditi che sono più aumentati negli ultimi vent’anni.
Evitiamo la guerra tra poveri: lavoratori e pensionati. Per questi ultimi, con il metodo di calcolo contributivo, si è già ampiamente ridotto il potenziale redistributivo che era presente nel metodo retributivo. Ora, è “etico” che si concepisca la pensione pubblica obbligatoria simile a un contratto di assicurazione privata, per cui la pensione mensile non è altro che il valore di una rendita che risulta dalla capitalizzazione finanziaria o demografico-finanziaria (cioè attuariale) dei contributi versati? Non è forse “etico”, invece, che la pensione pubblica abbia chiari connotati redistributivi e quindi che alcune classi di pensionati percepiscano pensioni d’importo superiore rispetto a quello che risulterebbe dalla semplice capitalizzazione finanziaria o attuariale predetta e che questo di più vada recuperato o dando di meno, rispetto a quanto indicato dai calcoli finanziari o attuariali, ad altre classi di pensionati (redistribuzione all’interno dell’universo dei pensionati) o attraverso la contribuzione erariale (redistribuzione coinvolgente la collettività dei soggetti che pagano le imposte) o riducendo altra spesa pubblica (con effetti negativi quindi nei confronti di coloro che usufruivano di tale spesa pubblica, ora ridotta per finanziare la maggiore spesa per pensioni) o producendo effetti negativi nei confronti della collettività di coloro che eventualmente vengono danneggiati dall’aumento dei tassi d’interesse, indotto dal maggiore debito pubblico, o dalla collettività di coloro che vengono danneggiati dall’aumento dei prezzi eventualmente provocato dal finanziamento della spesa per pensioni con creazione di nuova base monetaria o altro ancora? In altri termini, il sistema pensionistico deve puntare sulla “sostenibilità finanziaria”, a tutti i costi, oppure deve mirare alla “sostenibilità sociale”, tenendo conto anche delle esigenze, del vincolo della sostenibilità finanziaria? Su questa scelta, evidentemente influiranno in modo decisivo i principi etici predominanti nella comunità; l’etica di chi governa. Va da sé che un sistema pensionistico basato sul principio retributivo (cioè, con ripartizione della spesa per pensioni fra gli operatori attivi in contemporanea) meglio si adatta a recepire azioni collettive di “protezione sociale”, mentre il principio contributivo (o a capitalizzazione, cioè la pensione quale contratto di assicurazione) può trovare maggiori difficoltà a recepire azioni redistributive. Anche questo solleva domande d’ordine etico riguardo alle conseguenze sul bene comune dell’uno o dell’altro modello.
Diversa è la questione della povertà che deriva dall’inoccupazione giovanile. Il difetto di fondo del nostro mercato del lavoro attuale è che – lo si vede anche negli annunci di richiesta di lavoratori da parte dei datori di lavoro – i datori di lavoro vogliono solo lavoratori con specifica esperienza lavorativa, il che significa che i datori di lavoro non vogliono fare investimenti in capitale umano e si nascondono dietro il paravento dell’inadeguatezza della formazione scolastica (paravento che non esiste a meno che si tratti di formazione professionale). Ma se non vogliono fare investimenti in capitale umano è perché puntano sulla competitività in termini di prezzo e non in termini di qualità; cioè puntano a un livello di competitività di basso profilo (vedi risposta alle Domande n. 1+2 e alla Domanda n. 6).
Però, se ci interessa tanto la riduzione dell’inoccupazione giovanile, com’è che non ha ricevuto attenzione un progetto predisposto da alcuni economisti e sociologi dell’Università di Torino e dell’Università del Piemonte Orientale, incentrato sull’assunzione di giovani qualificati nella Pubblica Amministrazione, con contratto a tempo indeterminato; questo in quanto il nostro Paese è ampiamente sottodimensionato, in quantità e qualità, rispetto alla maggior parte delle economie a noi prossime.
Questi giovani dovrebbero essere assunti nei settori della P.A. erogatori di servizi di preminente rilevanza sociale e con evidente carenza di personale rispetto al fabbisogno (ad esempio, sanità, giustizia, tutela e miglioramento del territorio, messa in sicurezza del patrimonio abitativo, salvaguardia del patrimonio culturale…). La conseguenza sarebbe sia un aumento della domanda aggregata (per l’aumento del reddito disponibile presso i neoccupati) sia dell’offerta aggregata (per l’aumento di erogazioni di servizi pubblici socialmente rilevanti, la cui mancanza spesso tarpa le ali al funzionamento dell’economia); domanda e offerta aggregate che beneficerebbero anche dello stato di maggiore fiducia che questa manovra, se corposa, creerebbe nella società e nell’economia.
Ma come finanziare questa maggiore spesa pubblica? Con un’imposta sui patrimoni finanziari nazionali, con un’aliquota modesta (4 per mille se i neoassunti fossero nella misura di un milione) per una durata – si può stimare – di 4-5 anni: il tempo necessario affinché il maggior reddito prodotto dall’intervento generi maggiori entrate tributarie ordinarie di pari valore. Idea folle? Non parrebbe, dato che gli estensori del progetto si sono premurati di compiere un’indagine campionaria (scientificamente robusta) dalla quale è risultata un’ampia maggioranza di persone (70 per cento) che hanno risposto di sì alla domanda: “Sarebbe favorevole all’introduzione di un’imposta temporanea sul proprio patrimonio finanziario al fine di finanziare l’assunzione a tempo indeterminato, nella Pubblica amministrazione, nei settori di primaria rilevanza sociale e con carenza di personale, di giovani disoccupati o in cerca di prima occupazione?”
Il dramma dell’elevata disoccupazione giovanile è talmente forte da affievolire i conati di grezzo egoismo!
5. Torniamo al lavoro che manca. Quello che c’è, può venire ridistribuito? Ridurre l’orario e trasformare gli straordinari in nuovi occupati è possibile?
La globalizzazione ha portato a dover competere con prodotti provienti da paesi in cui il lavoro è assai poco retribuito (vedi risposta alle Domande n. 1+2). Ciò ha portato all’interruzione della tendenza alla riduzione delle ore di lavoro nel corso dell’anno; conseguentemente, a parità delle altre condizioni, ha portato alla riduzione della possibilità di dare occupazione a un maggior numero di persone. In effetti, la riduzione delle ore di lavoro pro capite e l’aumento del numero delle persone occupate, di per sé, comporta un aumento dei costi fissi unitari del lavoro (costi legati alla persona, non al numero delle ore lavorate da ciascun lavoratore) e quindi introduce un potenziale aumento dei prezzi dei beni prodotti; ma, se la diminuzione delle ore lavorate pro capite avvenisse a livello planetario e l’incidenza dei costi fissi del lavoro fosse uguale ovunque, non avverrebbe alcuna variazione nella competitività internazionale in termini di prezzo. Quest’ultima – per la componente lavoro – non varierebbe fra i vari paesi anche se il costo del lavoro per unità di prodotto rimanesse costante; il che avviene se il salario nominale orario cresce proporzionalmente quanto la produttività oraria, con conseguente ugual aumento proporzionale del salario annuo, qualora le ore di lavoro annue rimanessero costanti.
A questo punto, si apre un ventaglio di opzioni. Il costo del lavoro per unità di prodotto rimarrebbe ugualmente costante se il salario nominale orario aumentasse quanto la produttività oraria del lavoro in presenza di una riduzione delle ore di lavoro ma, in questo caso, il salario nominale annuo aumenterebbe di meno (al limite, non aumenterebbe per niente se il tasso di variazione (negativo) delle ore di lavoro prestate fosse uguale al tasso di variazione (positivo) della produttività oraria del lavoro). In quest’ultimo caso, si avrebbe però contemporaneamente un aumento dell’occupazione pari all’aumento della produzione, poiché l’effetto negativo sull’occupazione conseguente all’aumento della produttività oraria del lavoro verrebbe compensata dalla diminuzione delle ore di lavoro pro capite; il tutto sempre in costanza di costo del lavoro per unità di prodotto.
Se i prezzi dovessero comunque aumentare per la componente dei costi fissi del lavoro, o per altro, il salario orario reale aumenterebbe meno della produttività oraria del lavoro; il salario annuo reale si ridurrebbe (qualora le ore di lavoro si riducessero nella stessa proporzione dell’aumento della produttività oraria) ma, per contro, si avrebbe una più equa distribuzione del reddito prodotto all’interno della popolazione in età lavorativa, per effetto dell’aumento dell’occupazione. Alla luce del bene comune, che migliora in presenza di un più equo accesso alla disponibilità dei beni – che ha, come presupposto, una più equa distribuzione del reddito prodotto – l’opzione che porta a un aumento dell’occupazione pare senz’altro migliore.
6. Semplificare le norme e ridurre il costo del lavoro potrebbe creare nuova occupazione? O almeno servirebbe a mantenere il lavoro che c’è, agevolando chi intraprende?
Semplificare le norme del mercato del lavoro, che frenano i datori di lavoro desiderosi di assumere nuovi lavoratori pare un ragionamento senza riscontro con la realtà, se vediamo quanto le imprese sono brave a utilizzare tutti gli spiragli che le complicate procedure per utilizzare i benefici degli incentivi all’assunzione pongono!
La riduzione del costo del lavoro è essenziale per le imprese che mirano a competere, sul piano internazionale, in termini di prezzi. Vale assai meno, per non dire per nulla, se mirano a competere in termini di qualità. Se la concorrenza potrà essere battuta anche applicando prezzi più alti (questo è il significato pragmatico della competizione in termini di qualità), si potranno mantenere livelli di redditi, e quindi livelli di benessere economico, più elevati.
L’alternativa all’abbassamento dei livelli di vita nei Paesi occidentali sta quindi nel saper competere in termini di qualità dei prodotti. Ma non si può avere qualità nei prodotti se non si ha qualità del lavoro, che di per sé è in grado di produrre beni di elevata qualità, ma è anche in grado di determinare la buona qualità del capitale, attraverso processi d’innovazione attuati grazie all’elevata qualità del lavoro dei ricercatori e degli organizzatori e gestori della ricerca.
7. Si insiste tanto sulla formazione, intesa soprattutto come preparazione alla flessibilità nelle competenze e capacità di apprendimento continuo. Ma come programmare i contenuti della formazione per un mondo del lavoro in rapidissima evoluzione?
Parlando d’istruzione occorrerebbe distinguere se essa viene considerata quale bene di consumo (m’istruisco in un campo che mi piace conoscere) o quale bene d’investimento (m’istruisco per acquiisire una chiave che mi permetta di entrare nel mondo del lavoro e di entrarvi dignitosamente).
Questa seconda accezione ovviamente vale, essa sola, per quanto riguarda la formazione professionale. In un periodo in cui i contenuti della formazione professionale devono sapersi adattare alle richieste che provengono da un mondo del lavoro in rapidissima evoluzione, la formazione deve essere di ampio respiro, poiché sono le specificità a divenire rapidamente obsolete, mentre la formazione di base avrà una tenuta di più lunga durata. E la tenuta nel tempo sarà tanto maggiore per coloro che vivono le trasformazioni dei processi produttivi e delle competeenze collegate da occupato piuttosto che da inoccupato. Di qui, il grave danno, al lavoratore e alla società, della presenza d’inoccupazione di lunga durata.
8. Infine, se manca il lavoro, posto dalla Costituzione a fondamento della Repubblica, su cosa baseremo la nostra civile convivenza? L’adozione di un “reddito di cittadinanza” potrebbe essere un’idea valida? Ma lo ritiene economicamente sostenibile?
Se manca il lavoro, soffre la dignità della persona umana; quindi il lavoro non è l’obiettivo ultimo di una comunità. Obiettivo ultimo è la dignità delle persone, rispetto alla quale il lavoro è un obiettivo intermedio: meglio sarebbe quindi dire che la “Repubblica Italiana è fondata sulla dignità delle persone”.
Ciò premesso, veniamo al “reddito di cittadinanza”, cioè la proposta di assicurare ad ogni cittadino/cittadina, ad ogni famiglia, un reddito minimo adeguato alle sue esigenze di vita, per cui, se il suo reddito (derivante dall’attività economica svolta) non arrivasse alla soglia minima prevista, si avrebbe diritto a un trasferimento di risorse pubbliche per l’entità di questo reddito minimo garantito o per la differenza fra quest’ultimo e il reddito ottenuto dalla sua attività di mercato.
Detto così, ciò significherebbe una mera attività assistenziale (di solidarietà passiva). In certi casi, non è possibile che questa (e le attività assistenziale pubbliche nonché le attività di volontariato sociale sono normalmente impegnate in questa direzione), ma il principio di una società sana (cioè di sani principi) dovrebbe dare spazio a quest’azione, ma evitare che essa diventi una regola che svilisce la dignità della persona.
Così non fa la solidarietà attiva, la quale vorrebbe che il reddito di cittadinanza non fosse una mera erogazione assistenziale, bensì venisse impiegata, di massima, come affiancamento a programmi d’inserimento o di reinserimento lavorativo stabile di livello consono alla qualificazione lavorativa del lavoratore e, se questa fosse carente, incorporando anche attività di qualificazione lavorativa. Dal punto di vista etico, sarebbe positivo che fosse previto anche la messa in atto del principio della restituzione sociale, cioè della restituzione alla società, da parte del beneficiario del reddito di cittadinanza, di un corrispettivo – in forma finanziaria o in natura – commisurato al beneficio goduto. Quindi non un aiuto per permettere al cittadino/cittadina semplicemente di sopravvivere – a parte le situazioni in cui quest’intervento per la sopravvivenza sia l’unico che possa funzionare – ma un aiuto per prendere, o riprendere, a camminare con le proprie gambe nonché il coinvolgimento finanziario o in natura del beneficiario, affinché altri possano godere di analogo sostegno, essendo tutti membri di una comunità di persone.
In alternativa viene proposto che chi riceve il “reddito di cittadinanza” lo riceva non “per far nulla”, ma per svolgere lavori per la produzione di attività aventi finalità sociali, dalla salvaguardia del patrimonio pubblico artistico o naturale alla cura e all’assistenza delle persone ecc. Ma questi lavori non abbisognano di alcuna opera d’inserimento lavorativo dei neoincaricati? Direi di no, perché trattasi di attività lavorative di elevato livello di qualità. A meno che non si pensi al “reddito di cittadinanza” come a un nuovo espediente per creare “lavoretti” (mini-jobs, sono chiamati altrove) sotto pagati e precari, quando, invece, le predette attività presentano la caratteristica di andare a soddisfare bisogni collettivi continuativi, per cui non è eticamente corretto ricorrere all’istituto del “reddito di cittadinanza” per attivare prestazioni lavorative chiaramente configurabili come regolari contratti di lavoro a tempo indeterminato, dipendente o autonomo.
Ciò or ora detto non è altro che la riaffermazione della necessaria prevalenza delle politiche attive rispetto a quelle passive; della beneficienza rispetto all’elemosina, all’assistenza, e ciò sia dal punto di vista sociale sia, e soprattutto, dal punto di vista individuale. È la riaffermazione dell’ineludibile principio della responsabilità personale.
Quanto alla sostenibilità del programma – definito nel modo predetto – in questo momento non è la cosa più rilevante, anche perché in parte si autofinazia con il prelevamento fiscale ordinario dalla domanda che si verrebbe a creare se il “reddito di cittadinanza” venisse in gran parte speso (come è molto probabile che si verifichi). Se ciò mancasse, si potrebbe ricorrere a prelevamenti fiscali di tipo redistributivo (su i redditi e i patrimoni elevati) o in deficit di bilancio: quando v’è carenza di domanda aggregata una spinta all’insù della domanda non potrebbe che essere adeguata alle necessità del sistema economico, e in questo consiste il principio di sostenibilità letto non in senso contabile, ma in senso politico; di una politica che pensi al bene comune; cosa che da parecchio tempo non sta facendo la politica dell’Unione Europea, contravvenendo ai principi scritti nei trattati europei.
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