Romano Prodi rimane sempre un acuto osservatore del panorama politico internazionale. Da poco sono comparse due sue ampie interviste su “Avvenire”, il 21 gennaio, e su “La Stampa” due giorni dopo. Pubblichiamo tra le due, entrambe ricche di spunti, quella del quotidiano della CEI, meno diffuso nell’area subalpina, per allargare così la platea dei lettori. Per chi non avesse letto quella sul quotidiano torinese, e possibile accedervi dal link a fine articolo.
Romano Prodi è tornato nella sua Bologna dopo la fugace rentrée, giovedì, a Palazzo Chigi dove è andato a fare una «chiacchierata» con Paolo Gentiloni, il premier con cui ha vissuto una comune stagione di governo (dal 2006 al 2008), che ha incuriosito la stampa. Ma esclude, in qualunque forma, un suo ritorno sulla scena e non vuole parlare di politica interna: il “padre” dell’Ulivo si professa «un inguaribile riformista » e, dall’alto di questa condizione, guarda con rammarico a un quadro internazionale, politico ed economico, che lo delude un po’ a 360 gradi. Dall’«incognita» Trump all’«inaccettabile» linea inglese sulla Brexit, fino a quell’aumento delle disparità sociali che, nel suo giudizio, segna il tramonto di una stagione progressista e l’esigenza di trovare leader capaci di sviluppare politiche nuove.
Professore, non si può non cominciare chiedendole: cosa è andato a fare l’altroieri da Gentiloni? Il premier aveva bisogno di qualche “consiglio”?
Abbiamo semplicemente fatto una buona conversazione, sull’Europa e la politica estera. Per esperienza so che non si danno mai consigli a un primo ministro. Ci siamo acculturati a vicenda.
È possibile che vi sia un suo ruolo o una sua iniziativa nella celebrazione, il prossimo 25 marzo, dei 60 anni dei Trattati di Roma?
Non ne abbiamo proprio parlato.
È cominciata intanto l’era Trump, proprio in una fase di estrema debolezza per l’Europa.
Il problema Europa - e già mi duole definirlo così si apre in questo 2017 con interrogativi che non c’erano mai stati prima. Abbiamo non solo lo strappo della Brexit, ma anche il punto interrogativo del nuovo presidente americano. La politica che farà verso l’Europa – almeno se dobbiamo basarci sulle sue dichiarazioni – sarà del tutto inedita. Al di là del riferimento alla NATO, in campagna elettorale ha ignorato l’Europa, salvo attaccarla nelle sue ultime dichiarazioni. Si apre una fase nuova.
Nuova in che senso?
Negli ultimi anni l’Europa ha sempre fatto da sponda al governo americano. Pensiamo al caso Ucraina: gli attori sono stati la Russia e gli USA, con l’Europa quasi da spettatore. In questo quadro pieno di incertezze si apre immediatamente per l’Europa il problema di rinnovare i rapporti con la Russia di Putin.
Ma insomma: guarda a Trump più con preoccupazione o con curiosità?
Direi con una preoccupazione curiosa. Finora ha fatto ampio uso di slogan, esasperati perfino nel discorso inaugurale. Ma più mi preoccupa l’assenza totale di una risposta unitaria e il lassismo dell’Europa, non vedo nessuno che avverta l’esigenza di un vertice straordinario o qualcosa del genere.
Trump entra alla Casa Bianca proprio mentre le diseguaglianze si stanno aggravando. Come se lo spiega?
Il rapporto dell’Oxfam, con otto Paperoni che hanno la stessa ricchezza di 3,5 miliardi di persone, non è un paradosso. È il frutto di un sistema in cui, per definizione, le diseguaglianze aumentano: i capitali fuggono verso nuove mete, stiamo costruendo un mondo in cui dominano le grandi multinazionali e i “paradisi fiscali”... E c’è un altro aspetto che colpisce ancor più: è l’arretramento del welfare. Venti anni fa, appena si nominava la possibilità di un ticket, succedeva una rivoluzione; oggi lo si accetta con rassegnazione, ma questo genera una paura generalizzata. Un passo indietro: nel dopoguerra adagio adagio le disparità sono diminuite, fino agli anni Ottanta. Poi Thatcher e Reagan hanno introdotto il principio che “non esiste la società, solo gli individui”. E fino al 2003-2004 dominava questo paradigma: se alcuni si arricchiscono, questo è un bene per la società intera. Poi è arrivata l’ondata di accademici, da Picketty ad Atkinson, che finalmente ha messo in discussione queste tesi. Non siamo però ancora arrivati a elaborare una politica che aiuti una maggiore uguaglianza.
La sua risposta qual è?
Non credo che il rimedio sia il ritorno ai confini nazionali e la fine della globalizzazione tout court. Ma la sua disciplina sì, il controllo dei capitali, soprattutto l’armonizzazione delle imposte. Questo è il grande nuovo sforzo da fare. Per essere sinceri va detto che siamo lontani dall’elaborazione di una nuova politica. Se prendiamo il recente discorso su Brexit della premier britannica Theresa May, il perno è stato in sostanza: “State attenti che se non accetterete le nostre condizioni noi faremo del Regno Unito un grande paradiso fiscale”. È chiaro che un mondo di questo tipo non può andare avanti. È l’ora di un nuovo riformismo globale, da opporre alla globalizzazione incondizionata.
Buona analisi. Resta il fatto che Trump è stato votato pure dalla classe media.
Perché è la classe media che più viene danneggiata da questo sistema. L’astuzia politica di Trump è stata di capirlo e assecondarlo. “America first” era un ottimo manifesto elettorale, resta il punto interrogativo se possa anche costituire un programma di governo.
Una provocazione: non è che, almeno in campo economico, i cosiddetti populismi hanno una qualche ragione?
Non si ha mai ragione non proponendo niente. Vorrei capire la loro teoria economica. Se me la spiegano… Sostengono singoli punti, come un reddito di cittadinanza per tutti che non è assolutamente proponibile sul piano pratico. A loro giustificazione, si deve ammettere che la situazione contemporanea del mondo è talmente complessa che, per vincere, non hanno bisogno di costruire un programma organico. Come Trump. Per questo si sganciano anche da ogni riferimento ideologico. Non ne hanno bisogno. Anzi le ideologie ne limitano le possibilità di affermazione. Prendiamo i Le Pen: Jean-Marie aveva dei limiti perché era reputato vicino alla destra; Marine, che ha scelto la protesta e basta, attrae voti a destra e a sinistra.
Le faccio notare che quest’apice delle diseguaglianze coincide con un periodo di forte crisi dei “progressismi” in tutto il mondo. Colpa anche dei loro errori?
Purtroppo debbo ammettere che la disparità nella distribuzione della ricchezza è aumentata sia sotto Clinton che sotto Blair. Non ci si è saputi opporre a questa deriva. Lo spostamento al centro era per loro necessario per vincere le elezioni ma, successivamente, quello che era rimasto del programma riformista ha ceduto il campo a decisioni sostanzialmente in linea con gli andamenti precedenti. Ora che il divario è diventato insostenibile, esso sta travolgendo sia la destra che la sinistra.
Cosa auspica allora, a questo punto?
La grande sfida è dare vita a un nuovo riformismo. Della sinistra, ma anche di centro e di destra. È il momento di elaborare nuove idee. E di farlo in una cornice di necessarie intese internazionali. I cambiamenti nei processi storici si fanno quando la gente comincia a sentire profondamente la necessità del cambiamento. Come oggi. Non possiamo continuare con la polarizzazione che abbiamo, altrimenti alla fine ci sarà la rivolta. Prendiamo Apple, solo per fare un esempio: la UE l’ha multata per 13 miliardi di dollari per tasse da risarcire all’Irlanda. Questa decisione è stata lanciata come una rivoluzione, mentre si tratta di un fatto non certo rivoluzionario per un’impresa che ha in cassa 250 miliardi liquidi. L’umanità ha bisogno di un riformismo paziente, serio, fatto col “cacciavite”. Di una paziente opera di ricostruzione, prima che sia troppo tardi.
Nei giorni scorsi lei è arrivato a dire che “la mia UE è morta”. E anche un finanziere come Soros invita l’Europa a “svegliarsi”. Dica la verità: ma da ex presidente della Commissione UE non ha mai pensato, in questi anni, “che guaio ho contribuito a combinare” con questo euro?
Che cosa hanno combinato i nuovi nazionalismi! Venti anni fa erano tutti contenti. La moneta unica non solo funzionava bene dal punto di vista economico, ma segnava la fine di una storia, delle tragedie della guerra. Le nuove generazioni non hanno il senso dei conflitti di prima. Se tornano le pulsioni nazionali, non è colpa di chi ha fatto fare all’Europa i progressi che poi sono stati annullati da leader che non hanno dimostrato il senso di solidarietà e l’intelligenza politica di cui vi era bisogno.
L’osservazione generale, però, è che si è fatto troppo poco. Si è dato vita, cioè, alla moneta unica senza una parallela costruzione politica.
Proprio qui sta il problema! Quando è stato fatto l’euro era chiaro a tutti che sarebbero seguite le necessarie decisioni nel campo economico e finanziario. La crisi economica ha generato paure davanti a cui la risposta migliore è sembrata essere il ritornare agli egoismi nazionali. I veri leader guardano avanti, però, non indietro.
Anche in lei sembra prevalere oggi il pessimismo. È così?
Non del tutto. Perché quando si arriva sull’orlo del burrone, la gente capisce e fa un passo indietro. |