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I riformisti e la presidenza Trump
 
di Giuseppe Davicino
 

Con l'insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio si avvia ufficialmente la presidenza di Donald Trump. La sua elezione ha rappresentato un punto di svolta nella storia mondiale, paragonabile al 1989: se allora a crollare fu il comunismo, il 2016 ha costituito l'inizio della fine del pensiero unico neoliberista per opera del ritrovato protagonismo politico della classe media.
Gli interrogativi e le sfide che pone questa svolta anche per l'Europa e per il campo delle culture politiche riformatrici, tra cui la nostra, quella cattolico-democratica, si possono articolare attorno ad almeno tre questioni principali: la democrazia, l'economia, la pace.
Per cogliere tali nodi però è necessario prendere consapevolezza della distorsione grave dell'informazione dei media tradizionali, che forniscono una lettura degli avvenimenti in tutto funzionale alla visione dei poteri globalisti, per i quali gli esiti del referendum del Regno Unito, delle presidenziali americane e del referendum italiano costituiscono gravi quanto inattese sconfitte. Con le categorie che usa la grande stampa non si riesce a capire quali siano le provocazioni che la politica americana offre anche a noi, ci vengono forniti solo degli stereotipi che vorrebbero indurci ad arroccarsi di fronte al cambiamento, a dare la colpa al suffragio universale, alle notizie della rete, agli hacker e ai media russi. Quindi, le sfide le coglie solo chi è disposto ad ammettere dei dubbi, altrimenti il discorso è già chiuso.

La prima sfida proveniente dagli Stati Uniti riguarda la democrazia.
La liquidazione della Prima Repubblica, per impulso di logge e poteri transnazionali, avrebbe dovuto portare anche la nostra democrazia a godere dei benefici del “bipolarismo” tendente al bipartitismo. Avrebbe dovuto trionfare il modello americano, che ha funzionato benissimo per le oligarchie mondialiste, da Reagan ad Obama: chiunque vinca, l'agenda globale delle guerre della NATO e dell'imposizione di un neoliberismo avulso da regole e da vincoli sociali poteva continuare indisturbata. Ma, parafrasando Hegel, l'astuzia della storia ha volto le cose in modo inaspettato per l'establishment globalista. Nel momento in cui le classi medie e lavoratrici, massacrate negli ultimi trent'anni sul piano economico, sociale, politico, sono rientrate in gioco, la democrazia si è rivitalizzata. In Europa sono nati i “terzi poli”, che stanno mandando in crisi un po' ovunque i poli del tradizionale bipolarismo. Negli States è nato il fenomeno Trump (e poteva esser ancora più grande il successo del candidato socialista Bernie Sanders, se non fosse stato estromesso anche con i brogli dalla nomination democratica). Trump, a ben vedere, altro non è che l'affermazione di una terza forza, stufa delle compromissioni dei vertici Democratici e Repubblicani con i poteri globalisti, una forza costituita dalla classe media impoverita, il “centro” socialmente parlando, che è deluso tanto della destra che della sinistra. La sua presidenza si preannuncia, dunque, diversa e alternativa.

Lo si vede dal merito delle linee guida della nuova Amministrazione americana, la cui seconda grande sfida è costituita dalle politiche economiche. La de-globalizzazione, il protezionismo economico in funzione della tutela del lavoro in patria e della reindustrializzazione della nazione, l'intervento pubblico per un grande piano di ammodernamento delle infrastrutture interne, finanziato con l'indebitamento sovrano e una drastica riduzione delle spese militari, sono i punti chiave della “trumpeconomics”.
Punti che sono esattamente in cima anche alle aspettative e ai criteri di voto della classe media europea. Agli occhi della quale l'accettazione acritica da parte della sinistra dei dogmi del neoliberismo, ne ha minato la credibilità. O si avvia al più presto un mea culpa, un ripensamento e una svolta a 180 gradi sulle suddette questioni economiche, nel nostro Paese e in Europa soprattutto – l'Europa post Maastricht, intrisa di liberismo ha assai poco da spartire con quella dei padri fondatori – oppure i ceti medi volteranno sempre di più le spalle, nelle urne, alle forze riformatrici. In Italia una tale svolta va, per forza di cose, fatta in alternativa al Partito Democratico, essendo il PD ormai divenuto il riferimento politico principale dell'establishment globalista che sfrutta all'inverosimile il lavoro e che depreda patrimoni e risparmi con la speculazione finanziaria. L'obiettivo non può che essere il governo dell'alternativa con tutte quelle forze che hanno capito che l'austerità è insostenibile per l'Italia e sono pronte a trarne le debite conseguenze anche sul futuro della moneta unica.

La terza grande sfida della nuova Amministrazione americana concerne la pace e la politica internazionale. Per capirne la portata e fino a che punto ci riguardi, bisogna considerare fatti che la nostra opinione pubblica ha sostanzialmente tenuto in un cono d'ombra, quando non censurato. Non è infatti così comune la consapevolezza dei costi, delle distruzioni e delle vittime provocate da un quindicennio di “lotta globale al terrorismo” che in realtà è stato un pretesto per realizzare la strategia dei neoconservatori americani (un manipolo di spregiudicati ed esaltati nichilisti rimasti al potere nei sedici anni delle presidenze Bush e Obama e che Trump ha cacciato via dalla sua Amministrazione) di destabilizzazione e di divisione per linee etniche e religiose dell'area strategica del Medio Oriente e del mondo musulmano.
La presidenza Trump intende tagliare i fili, neanche tanto nascosti, che legano l'Occidente al terrorismo internazionale colpevolmente definito “islamico”. E anche per fare questo ha instaurato un rapporto privilegiato con la Russia (altro Stato nel mirino dei poteri globalisti, che avrebbero invece spinto la Clinton, nel caso di una sua vittoria, ad acuire il braccio di ferro contro il Cremlino). Bisogna, dunque, riscoprire e rilanciare la tradizionale politica di apertura e di amicizia dell'Italia con Israele e il mondo arabo, e con la Russia.
Ma la politica estera di Trump mette l'Unione Europea davanti a un bivio: essere, come sta finora reagendo al nuovo corso americano, l'avamposto dei poteri che cercano lo scontro bellico con la Russia, ed essere altresì la roccaforte dei poteri globalisti, l'ultimo baluardo del neoliberismo, con addirittura il Regno Unito, patria di Adam Smith, tornato ad un'economia sociale di mercato con il governo conservatore post-brexit di Theresa May; oppure, essere capaci di un salto di qualità, di cacciare via dalle stanze di potere di Bruxelles i tecnocrati, i guardiani del neoliberismo che affama e umilia la classe media, ed esser capaci di una unità politica su basi completamente nuove, per non rimanere stritolati e politicamente insignificanti, di fronte alla ritrovata amicizia tra Washington e Mosca.

Sopra a tutto credo che l'insediamento della nuova Amministrazione americana ci ricorda come si debba avere coscienza del fatto che questa inattesa finestra apertasi nel 2016, nella quale la democrazia sta rifiorendo e la classe media e i ceti lavoratori tornano a contare nella vita democratica, al posto di un cammino che invece pareva procedere sul sentiero perverso del bellicismo, della globalizzazione selvaggia e di un sottile e subdolo totalitarismo del “politicamente corretto” di stampo orwelliano, potrebbe presto chiudersi.
Sta innanzitutto a chi è espressione di una cultura politica popolare impegnarsi a fare in modo che ciò non succeda.


Giuseppe Davicino - 2017-01-28
Caro Francesco, credo che il problema non sia cosa fa Trump, ma che di fronte alle sfide del superamento delle crisi economica, della riduzione delle disuguaglianze e della pace, le culture riformatrici sono incapaci di scelte concrete, e spesso stanno contro il popolo, con quei poteri globalisti che hanno combinato i disastri economico-sociali e bellici di questi anni. Che scelte come la cancellazione dei Trattati commerciali internazionali, il protezionismo economico a tutela del lavoro e della domanda interna - da cui dipende il rilancio del commercio mondiale -, e il superamento della nuova guerra fredda con la Russia, stiano venendo da un personaggio discutibile come il nuovo presidente americano, è veramente umiliante per i democratici e la sinistra in generale che ha clamorosamente abdicato al proprio compito storico.
francesco cecco sobrero - 2017-01-26
Sono felice che in Trump ci sia un altro che ha visto in lui la nascita di un nuovo Messia. Spero che non dobbiate pentirvi a breve termine. Esultate anche per il muro con il Messico? Siamo solo all'inizio, se il giorno si vede dal mattino...
Giuseppe Ladetto - 2017-01-21
Davicino in questo secondo scritto riprende quanto detto nel precedente articolo intitolato “Tempo di nuove risposte” motivandone ed ampliandone i contenuti. Ora, aggiungo una considerazione a quanto ho già espresso a commento del primo articolo. Luciano Gallino più volte ci ha detto che l’ideologia liberale ha penetrato ogni ambito della società fino a modificare la natura antropologica delle persone. E’ un fatto che, in misura maggiore o minore, riguarda tutti. Oggi, questa ideologia liberale, unitamente al mondo che ha prodotto, manifesta delle crepe sempre più evidenti. Tuttavia sarà un’impresa molto dura e complessa liberarcene. L’articolato fronte “populista”, che sembra voler voltare pagina, ne è ancora fortemente condizionato. Coglie qualche aspetto critico del sistema, ma non ne vede altri e per giunta è disunito nel giudicare le priorità: c’è chi (come Trump) si preoccupa della diffusa disoccupazione e del declino dei ceti medi, ma non del pericolo dei cambiamenti climatici; c’è chi (come la Lega) vede l’insostenibilità dei crescenti flussi migratori che investono l’Europa, ma non si sofferma sulle enormi differenze di reddito che li muovono verso un nord ritenuto opulento; c’è chi (come i grillini) vorrebbe una società più partecipata e più collaborativa, ma insite nel promuovere quei “diritti civili” che esprimono un individualismo incompatibile con la creazione del necessario capitale sociale. Inoltre, al di fuori dell’area populista, c’è una certa sinistra che vorrebbe la fine dell’austerità (ovvero accrescere senza limite il debito pubblico già enorme) e quindi la ripresa dei consumi, ma non percepisce l’impatto negativo che avrebbe una tale politica economica sulle risorse del pianeta e sulla già iniqua ripartizione di esse fra nord e sud del mondo. Davicino ha posto con coraggio questioni reali e ha fatto proposte che meritano di essere discusse. Credevo che, per il carattere dirompente dei due articoli, ne sarebbe subito scaturito un vivace dibattito sostenuto da molti commenti, variamente orientati. Al momento, mi meraviglia invece la carenza di risposte.
Massimo Canova - 2017-01-19
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