Qualche tempo fa, in un dibattito televisivo su tematiche sensibili (adozioni da parte di coppie omosessuali, maternità surrogata, eutanasia, divorzio veloce, ecc.), era stato messo in evidenza dal moderatore il divario esistente fra le posizioni degli appartenenti alle diverse generazioni, e rilevata la maggiore apertura dei giovani nei confronti di tutto quanto oggi viene ritenuto apportatore di nuovi diritti.
Domenico De Masi, un sociologo settantottenne, ha dichiarato che il divario di opinioni non dipende tanto dall’età delle persone, ma si evidenzia fra quanti fanno parte del mondo digitale (fra i quali egli si include), aperto al nuovo, alla mobilità territoriale, tendenzialmente cosmopolita, e coloro che, giovani o vecchi, sono rimasti indietro rispetto allo sviluppo tecnologico e non comprendono le possibilità e gli spazi nuovi che da questo discendono.
Ora sul momento, mi ha lasciato perplesso vedere assumere uno strumento tecnologico, quale è il digitale, come elemento discriminante nei confronti di valutazioni che appartengono alla sfera dei valori o dei principi di natura etica. In realtà, a ben vedere, questa è la conferma del fatto che la tecnologia non è un semplice strumento al servizio dell’utente, ma un potente mezzo che impone le sue logiche a chi lo utilizza e di conseguenza alla società. Ciò riguarda tutte le tecnologie, come ci ha detto più volte Luciano Gallino, ma mi sembra valga in particolare per quelle informatiche.
Non metto in discussione le opportunità che ci forniscono questi mezzi (utilizzo anche io la posta elettronica e internet; invio scritti a una rivista on line come “Rinascita popolare”), ma sarebbe opportuno tenere presenti i pericoli per la nostra autonomia e la nostra libertà che comporta un esteso e incontrollato loro utilizzo.
Jeremy Rifkin (in L’era dell’accesso) ci avverte che le nuove tecnologie della comunicazione intaccano sempre più la percezione della realtà.
Le nuove generazioni trascorrono la maggior parte del tempo collegate alla rete e nel ciberspazio, e di conseguenza tendono sempre più ad equiparare il mondo vero e quanto visto in tv o in rete; anzi ogni evento non è reale se non è stato in tv o in rete. Realtà e illusione sono superate dalla simulazione.
I giovani, non distinguendo più il reale dal virtuale, stanno perdendo la misura del tempo e la percezione della successione dei fatti, che non riescono a ricondurre ai contesti storici e geografici in cui si svolgono o si sono svolti: in tal modo non si collegano più cause ed effetti. Ne consegue, secondo Rifkin, che la mancata percezione della distinzione tra mondo reale e virtuale, con la molteplicità di relazioni incoerenti e fra loro sconnesse, vigenti nel cyberspazio, conduce alla frammentazione dell’essere umano inteso come soggetto autentico dotato di caratteristiche conoscibili e di autonomia.
Portata alle estreme conseguenze, questa perdita di distinzione fra reale e virtuale sta alla base di molti dei mali odierni e perfino di frequenti episodi di cronaca nera. È il caso, ad esempio, di omicidi in cui chi spara ad esseri umani sembra ripetere i gesti di chi nei giochi elettronici indirizza raggi mortali contro mostri o alieni, e pare non cogliere più la differenza.
Un altro aspetto negativo, legato al sempre maggiore tempo trascorso nel ciberspazio dalle giovani generazioni, riguarda il connesso peggioramento della vita relazionale.
In materia, voglio ricordare un episodio. Il giorno di Pasqua dello scorso anno, ero andato con mia moglie a pranzo in una trattoria del retroterra imperiese. Accanto a noi, c’era una tavolata formata da una quindicina di giovani coppie. Per tutta la durata del pranzo, quei giovani non hanno quasi mai scambiato parole fra loro essendo tutti presi dai loro tablet sui quali continuavano a smanettare. La tavola è per eccellenza il luogo delle relazioni conviviali, dove anche gli estranei dialogano. Vedere che anche in questa occasione ci si chiude in se stessi inseguendo non so quali fantasie mi ha lasciato perplesso e anche un po’ rattristato. E si tratta ormai di un fenomeno diffuso che ovunque si può constatare.
A fronte di questi aspetti negativi, si dirà che la rete è un luogo in cui si possono creare nuovi contatti, costruire relazioni, realizzare nuove comunità. Ma tutto ciò è sostitutivo di una vita di relazione con persone concrete?
Quando le relazioni sociali sono sempre più affidate a tecnologie digitali, esse vengono impoverite e talora svilite, quasi ridotte ad operazioni meccaniche paragonabili alla gestione di un conto corrente on line.
Ho già avuto modo di citare in proposito Zygmunt Bauman che nuovamente richiamo. A chi vede nella rete la possibilità di creare nuove comunità, caratterizzate inoltre dal non essere costrittive come quelle tradizionali, Bauman dice che queste sono solo un surrogato delle vere comunità: danno l’illusione di far parte di un insieme di persone solidali, ma i legami costruiti nella rete sono deboli e fragili. La rete non crea gruppi costituiti da veri amici su cui contare; ci dà libertà ma non sicurezza; in essa tutto è immaginario.
Aggiungo che anche l’idea di trovare nella rete una moderna agorà in cui esercitare la democrazia diretta mi pare una fuga dalla realtà a favore di una chimera.
Cercare contatti umani nella sola rete e trascorrere molto tempo nel ciberspazio sono modi per evitare la vita reale, il contatto con persone concrete e le conseguenti assunzioni di responsabilità che il vivere impone. Così le persone, e in particolare i giovani, non maturano e diventano sempre più fragili e dominabili, alla mercé dei pochi vincenti in una società sempre più competitiva.
È evidente che la tecnologia sta condizionando le nostre vite, a livello individuale e a livello collettivo. Per farvi fronte bisogna, come scrive Anthony Giddens, riesaminare la logica stessa di uno sviluppo scientifico e tecnologico inarrestabile valutandone le ricadute sul piano etico e sociale. È necessario riprendere il controllo del volante, dell’acceleratore e del freno del veicolo (il mondo contemporaneo) sul quale ci troviamo a viaggiare per dirigerlo verso una meta sicura e condivisa, augurandoci che non sia troppo tardi. Infatti, Emanuele Severino, convinto che la tecnologia sia destinata comunque ad imporsi, ci dice (e Massimo Cacciari concorda con lui) che con la piena affermazione della tecnocrazia, non ci sarà più spazio, nel mondo prossimo venturo, per la religione, l’umanesimo e la democrazia. Spero che possa essere smentito, ma certamente occorre prendere atto di questo pericolo e agire di conseguenza.
In questi giorni, abbiamo assistito al confronto sulla riforma costituzionale che ha mobilitato molte persone e sollevato passioni che da tempo non si vedevano. Questa partecipazione al dibattito e al voto è stata un fatto positivo e significativo, anche se troppi, nei due schieramenti, hanno affrontato il referendum come un’ordalia, adottando toni sopra le righe e sovente argomentazioni strumentali. Tuttavia mi chiedo se, a fronte dell’incombente minaccia rappresentata dall’affermazione di un potere tecnocratico, sia sufficiente confrontarsi sul solo terreno giuridico-istituzionale, e non si richieda piuttosto una vera rivoluzione culturale, di cui non vedo ancora traccia. Invece si va nella direzione opposta.
Franco Bruni su La Stampa del 1° dicembre, è ritornato su un argomento già affrontato in un precedente articolo (di cui ho scritto su “Rinascita popolare”). Per fermare l’ondata populista che vive della denuncia dei guasti prodotti dalla globalizzazione, scrive Bruni, occorre dare risposte a chi se ne sente vittima. Per la parte povera della popolazione, la ridistribuzione dei redditi può essere una soluzione. Tuttavia, ci sono anche elettori, disorientati dalla globalizzazione e dallo sviluppo tecnologico, che temono di perdere il controllo di ciò che conta nella vita e non si fidano delle indispensabili deleghe a chi decide lontano da loro. Ad essi, bisogna dire che la crescente complessità del mondo è inevitabile. Con tale affermazione, Bruni sottintende che sono il mercato globale e la tecnologia a indirizzare la società, e non le esigenze o le aspirazioni degli esseri umani: questi devono solo adattarsi ai cambiamenti imposti.
Quindi, secondo Bruni, il solo rimedio ai timori di chi diffida delle deleghe, assegnate a chi opera lontano dai cittadini, consiste nel mettere in campo delegati di elevata qualità, che facciano le scelte tecnicamente valide, e rendicontino come usano il loro potere decisionale.
In pratica si tratta del governo di chi sa di scienza, di tecnica e di filosofia, cioè un governo aristocratico, o dei migliori (auspicato da Platone), l’esatto opposto della democrazia (il governo di tutto il popolo).
Oggi la nuova aristocrazia (invocata nell’articolo) è quella dei tecnologi, e il nuovo governo, che già si intravede, è quello tecnocratico, sotto il quale le persone non hanno più alcuna incidenza sulle scelte che determinano la loro vita, quali che siano gli assetti giuridico istituzionali, ridotti ad una semplice cornice che potrà sempre essere messa in soffitta, se ritenuto opportuno. |