Riceviamo e pubblichiamo.
Non mi riconosco per nulla nelle posizioni di Alessandro Risso e neanche nel metodo così radicale con cui chi governa la comunicazione dell’Associazione ha sostenuto la campagna del “no”. Da questo punto di vista devo dire che le mie motivazioni a far parte dell’Associazione si riducono al tenero ricordo dei miei anni migliori in cui persone come Tina Anselmi mi hanno educato al senso della democrazia e del dialogo.
Fra l’altro inviterei molti amici popolari a rileggere le critiche pesanti fatte con gli stessi argomenti del “no” di oggi nei confronti dei progetti di riforma ispirati dal compianto Roberto Ruffilli. Io penso che potrebbero da soli rendersi conto di quanti passi indietro abbia fatto la cultura riformista e istituzionale del nostro movimento.
Le cosiddette ragioni del “no” di Risso si collegano al giudizio negativo sulla politica del Governo. È un’opinione. Ma viene spesa per contrastare una riforma che non appartiene al Governo, ma al Paese. Peraltro non mi pare che questo Governo rappresenti il “male assoluto”. Ha una rappresentatività più robusta di quello di Monti. Un’imparzialità superiore nettamente a quello di Berlusconi. Una produttività migliore rispetto a quella di moltissimi governi precedenti, con riforme realizzate e altre in cantiere di cui il Paese aveva bisogno (per quanto non risolutive). Certo non possiamo confrontare Renzi con Ciampi o Prodi, se non altro per ragioni di età. Ma non mi pare vi siano oggi in circolazione, soprattutto sul fronte del “no”, candidati alla leadership che si possano confrontare con simili maestri.
Anche il metodo con cui si è arrivati alla riforma è di una linearità imbarazzante. Proprio le istituzioni che i fautori del “no” vogliono difendere hanno prodotto il testo che andiamo a votare. Non solo, ma anche nel passato quasi tutti i Governi (anche quelli dello stesso De Mita) hanno posto nella propria agenda il tema delle riforme istituzionali e hanno promosso iniziative in materia. Solo un livore preconcetto nei confronti dell’attuale Presidente del Consiglio può portare a negare la sua assoluta coerenza nel percorso di riforma. Peraltro il Presidente del Consiglio riceve il mandato dal Presidente della Repubblica e a quel mandato si attiene. Napolitano non ha mai nascosto a questo proposito il suo orientamento, concordato con i grandi elettori all’atto della sua conferma.
Sul merito consiglierei a tutti di leggere la riforma.
Dice Risso che vi è “la riduzione della sovranità del cittadino con l’esproprio progressivo del diritto di voto”. Qui vi è l’abbaglio di chi continua a difendere il Senato che non c’è più e che i più hanno sempre ritenuto superfluo o talvolta dannoso. Una volta che si accetti che in luogo del vecchio Senato ve n’è uno “nuovo”, se lo stesso viene eletto in via indiretta dai rappresentanti delle Regioni non dovrebbe offendere nessuno, se non i difensori di una visione unicamente plebiscitaria della democrazia, quella che in ogni epoca ha provocato il “terrore”. In realtà la riforma estende il potere del cittadino, ad esempio in tutta la materia referendaria, ahimè poco commentata sia dai sostenitori del “no” (per ovvie ragioni di propaganda) sia dai sostenitori del “sì”.
Dice Risso: “un secondo motivo di opposizione alla riforma sta nell’alterazione dell’equilibrio costituzionale a favore dell’esecutivo”. Qui vi è l’opposizione a una riforma che non c’è. Infatti nella riforma che andremo a votare non si parla di forma di Governo. Né andremo a votare sulla legge elettorale, cui dedica ampio spazio del suo articolo. Anzi la legge elettorale, ancora peraltro sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale (che ha sbagliato a rinviare la decisione), sarà certamente modificata raccogliendo le censure di chi ne aveva visto una tendenza eccessivamente maggioritaria.
Dice ancora Risso. “Terzo buon motivo per votare NO è il pasticcio di competenze tra Camera e Senato”. La lunghezza dell’art. 70 riformato è il cavallo di battaglia dei fautori del “no”. Ma la critica contiene un difetto ottico. È del tutto evidente che dovendo introdurre un nuovo organo costituzionale legislativo si sono dovute introdurre procedure differenziate per la produzione legislativa. La lunghezza del testo è dovuta alla identificazione di quei casi in cui la potestà legislativa della Camera è concorrente con quella del Senato. Vi è qui la ricerca di quelle garanzie di equilibrio istituzionale del quale proprio i fautori del “no” si fanno paladini. Un equilibrio riuscito. Nascerà (forse) un Senato delle autonomie e delle Regioni che potrà essere cinghia di trasmissione fra gli interessi locali e quelli europei. Un punto di riequilibrio anche di fronte al necessario trasferimento di alcune funzioni dalle Regioni al Governo centrale. Si tratta qui di una correzione non del testo originario della Costituzione, ma della più recente riforma dei poteri regionali del 2001. Si tratta anche della presa d’atto che quella riforma ha generato conflitti, ritardando la soluzione dei problemi. Inoltre, lungi dal dare un’identità regionale ai cittadini, ha indebolito la loro identità nazionale e ha amplificato i localismi in materie delicatissime da cui dipende lo sviluppo economico e sociale dell’intero Paese.
Nonostante tutto ciò si può anche votare “no”, ma consapevoli che con questa scelta si rinuncia per molti anni ad ogni ipotesi di cambiamento. Con il “no” non vincerà la “buona” politica, né si creeranno le condizioni per una riforma migliore. Si tornerà al nostro ormai usato ménage politico-istituzionale fatto di connubi e trasformisti che lasceranno i potenti con le loro prerogative e i deboli con le loro ansie. Il virtuoso sistema cui guardano con nostalgia i fautori del “no”, il cui refrain è un proporzionalismo a qualunque costo, ha prodotto il fascismo e il nazismo negli anni ’20 e ’30, ha mantenuto in vita la mafia e altre forma di criminalità organizzata ormai diffuse su tutto il territorio nazionale, non ha impedito l’emergere del terrorismo in Italia e la tragica morte di servitori dello stato e di maestri carissimi, ha portato al potere per vent’anni un impresario edile e televisivo si dice molto interessato (che finiremo per rimpiangere), ha contribuito al dissolvimento del sistema industriale del Paese (Montedison, Olivetti, Pirelli, Fiat). Nonostante tutto ciò siamo così bravi da aver individuato in Renzi, l’ultimo arrivato, il nemico da combattere. Prima di andare a votare rileggiamo il romanzo di Giulio Andreotti, Ore 13: il Ministro deve morire, dove si narrano le vicende del Ministro Pellegrino Rossi durante il regno di Pio IX e della sua tragica fine. Il racconto impietoso di quanto difficile e pericolosa sia la strada delle riforme e del buon governo. Oggi siamo ancora lì, poco disposti a rimetterci in discussione, anche se il nostro immobilismo riduce le nostre opportunità.
Nella nostra storia c’è molto da salvare sia ben chiaro, e ciò che è più prezioso è la capacità di accompagnare con le riforme la trasformazione della società. I fautori del “sì” hanno una riforma da sostenere. I fautori del “no” non ne hanno nessuna. |