Parto dal fastidio per una campagna elettorale referendaria che ha dato, su tutti i fronti, il peggio di sé. Molte colpe le ha il Presidente del Consiglio, che ha trasformato il confronto in una sorta di “giudizio di Dio” sul futuro del Paese, e ha creato un clima di plebiscito inaccettabile in un ordinamento democratico. Se, come hanno ricordato molti commentatori, la maggioranza di coloro che si recheranno alle urne voterà su Renzi, e non sulla Costituzione, siamo di fronte a una sconfitta del percorso costituzionalmente previsto per le modifiche della nostra carta fondamentale.
Il “fronte del no” ha accettato questa impostazione, anzi l’ha rafforzata, descrivendo la vittoria del sì come un “rovesciamento della piramide democratica”, destinato a consolidare definitivamente una democrazia dall’alto caratterizzata da “un uomo solo al comando”, anticamera di una deriva autoritaria.
Eccessi, che fanno dubitare che il confronto si sia trasformato in una contesa sul potere, di chi vuole difenderlo dopo averlo conquistato, e di chi tenta l’ultima spallata per riprenderlo o almeno condizionarlo. Ne esce un quadro decisamente provinciale, che nasconde le grandi questioni su cui il confronto dovrebbe avvenire.
Nella mia riflessione parto proprio da queste grandi questioni, con cui il nostro dibattito deve fare i conti. Riassumo molto sinteticamente quelle che mi sembrano le più importanti: 1) La crisi della globalizzazione, resa evidente dall’indebolimento economico dei Paesi occidentali, che ha riproposto il confronto tra il modello neoliberale e il modello keynesiano nella ispirazione delle politiche per uscire dalla recessione. 2) La crisi dell’Europa, insidiata dal risorgere dei nazionalismi e incapace di ritrovare la strada della crescita e del consolidamento della prospettiva unitaria. 3) Il prorompente successo dei populismi, che mina il modello della democrazia rappresentativa e attacca i valori sociali ed economici che l’hanno incarnata.
Si tratta di problemi molto grandi, a cui non possiamo però non rapportare una decisione politicamente così rilevante come quella del referendum. Serve in quest’ottica una modifica della Costituzione ? Quella che è stata approvata dal Parlamento va nella duplice direzione di rafforzare l’efficienza delle nostre istituzioni per renderle più decidenti (non è una bestemmia), e contemporaneamente di consolidare il sistema democratico per fare argine contro i populismi e i rischi autoritari (due facce strettamente connesse della stessa medaglia)?
Provo a sviluppare qualche ragionamento in questa chiave sui punti principali della riforma, “sul merito” come molti amici hanno promesso senza sempre mantenere.
Partiamo dal tema del superamento del bicameralismo paritario. Chi come me ha un po’ di esperienza parlamentare sa che non si tratta della questione più importante nel determinare la scarsa qualità e l’insufficiente tempestività della nostra legislazione, e tuttavia ne ha constatato l’anacronismo di cui troviamo eco negli stessi dibattiti dell’Assemblea Costituente e nella discussione immediatamente successiva sui limiti della Costituzione appena approvata. E se vogliamo rimanere nel campo della cultura istituzionale cattolico democratica, sappiamo che questo non era certo il modello dei costituenti democristiani, che pensavano a una seconda camera rappresentativa delle autonomie sociali secondo il modello sturziano. Ritengo positivo che si sia messo mano a questo tema, anche se soltanto l’esperienza concreta ci dirà se l’esistenza di una sola camera politica sarà capace di far compiere un salto di qualità all’azione parlamentare.
Condivido, anche se questa mia opinione richiede molte precisazioni, la scelta di mantenere una seconda camera rappresentativa del sistema delle Autonomie. E trovo francamente infondata la critica sull'esproprio progressivo del diritto di voto dei cittadini, che avverrebbe introducendo per il Senato un meccanismo elettorale di secondo livello. Si potevano certo fare scelte diverse. Mi ha incuriosito, ad esempio, la proposta di Zagrebelsky di elezione da parte degli elettori delle Regioni di un numero molto limitato di rappresentanti su base di candidature personali, senza liste e senza partiti, come voci dei territori e non delle istituzioni locali. Tra le tante idee possibili (e criticabili) quella di rappresentare le istituzioni territoriali, che sono uno snodo importante della nostra democrazia e del nostro potere pubblico, non è priva di dignità.
Tuttavia le modalità della sua attuazione mi lasciano molto perplesso. Elenco, in modo un po' disordinato, le ragioni. Anzitutto il corpo elettorale, limitato ai consiglieri regionali, che consegnerà alla mediazione partitica le scelte della rappresentanza; avrei preferito il sistema francese, che attribuisce l'elettorato attivo a tutti gli eletti delle istituzioni locali, e consente in questo modo di avere una camera rappresentativa di tutte le realtà territoriali. Poi la complessità della individuazione delle funzioni del nuovo Senato, e delle modalità di concreto svolgimento del processo legislativo, che appare a tutti molto farraginoso e destinato a causare non pochi problemi in sede applicativa. E ancora la difficoltà di rendere compatibile l'attività senatoriale con quella di Sindaci, Assessori, Consiglieri che manterranno il loro incarico, con evidenti problemi di sovrapposizione nello svolgimento di due funzioni; un problema che difficilmente sarà risolvibile con l'organizzazione del calendario, o con innovative modalità di lavoro previste dal regolamento.
Insomma, il rischio che il Senato diventi una camera di secondo livello, che non riesce a incidere sulle decisioni e che si riduce a una funzione propositiva che l'altro ramo del parlamento tenderà a ignorare è concreto. Si tratta tuttavia di un esito non scontato. Molto dipenderà da come il nuovo Senato interpreterà il suo ruolo, e da come saprà valorizzare, accanto alle competenze legislative, gli altri compiti che gli vengono assegnati.
Il terzo tema rilevante su cui voglio soffermarmi è quello relativo al titolo V. La modifica del testo introdotto dalla riforma del 2001 è del tutto opportuna, per porre fine ad un contenzioso costituzionale eccessivo, e per chiarire un sistema di competenze che ha effetti significativi sulla vita economica e sociale (a solo titolo di esempio rinvio all'intervista di Antonio Saitta di qualche giorno fa sulle disuguaglianze territoriali in materia di sanità). Le scelte fatte mi sembrano però un po' improvvisate, lontane dal dibattito che si è riaperto tra gli studiosi sul senso dell'esperienza delle Regioni a statuto ordinario, e inevitabilmente tributarie di un processo di ricentralizzazione in atto da qualche tempo. Bene infatti la soppressione della legislazione concorrente, male il pressoché totale trasferimento delle competenze concorrenti alla esclusiva legislazione dello Stato. Bene la possibilità dello Stato di tutelare l'unità giuridica ed economica della Repubblica anche nelle materie che non sono di sua esclusiva competenza, male la mancata previsione di procedure straordinarie per impedire che il legislatore statale possa tranquillamente decidere una compressione dell'autonomia legislativa delle Regioni (per inciso ricordo che nell'ordinamento tedesco, in cui allo Stato centrale è riconosciuta questa possibilità, è previsto il potere di veto del Bundesrat). Potrei continuare nell'elenco di grandi e piccole contraddizioni tra principi condivisibili e scelte concrete inaccettabili.
Merita qualche attenzione la risposta a queste critiche dei più attenti sostenitori della riforma, che non negano che il nuovo titolo V sia squilibrato in senso centralistico, ma sottolineano che per converso le Regioni partecipano, con il Senato, all'attività legislativa nazionale. Secondo Stefano Ceccanti, “la riforma del titolo V è in realtà la riforma del titolo I, ossia un Senato composto per tre quarti da rappresentanti dei legislatori regionali, rompendo la separatezza dei due livelli di legislazione”.
C'è ancora un punto rilevante, ed è il legame inscindibile tra riforma costituzionale e legge elettorale. Considero anch'io risibile la risposta ufficiale: non c'è nessun legame, perchè si tratta di legge ordinaria che il parlamento può modificare in qualsiasi momento. E condivido con molti amici la critica a una legge che consegna tutto il potere a una minoranza, e, dietro il paravento della democrazia immediata in cui i cittadini decidono anche sul governo, nasconde il venir meno di un adeguato livello di rappresentanza. Prendo atto tuttavia che su questo tema la politica ha fatto passi avanti, e fino a prova contraria la discussione si sposta ora sui contenuti di una nuova legge elettorale che il parlamento sarà chiamato ad approvare, indipendentemente dalla vittoria del sì o del no.
Tralascio altri temi, che pure meriterebbero qualche considerazione, e riassumo conclusivamente le riflessioni che ho svolto: ci troviamo in presenza di luci ed ombre, in un testo che non meritava (né in positivo né in negativo) quel carattere di spartiacque epocale che lo scontro tra il sì ed il no gli ha attribuito. Le luci che vedo mi consentono di esprimere un sì, ma sono convinto che gli esiti della riforma saranno largamente condizionati dal processo della sua attuazione. E sarà determinante per questo che dopo il 5 dicembre si ritorni alla politica intesa come sintesi e mediazione, e non come resa dei conti. |