A una settimana dal referendum costituzionale, nel pieno di un dibattito tra posizioni contrastanti che trascende sempre più, mi pare utile mettere in fila le valutazioni sulla riforma voluta dal Governo che hanno orientato al NO gran parte di chi si riconosce e partecipa alle attività dei Popolari piemontesi.
Scelgo di attenermi al merito della riforma, ma solo per ragioni di brevità. Tanto infatti si potrebbe osservare sul contesto che la circonda: dall’enfasi per quella che viene dipinta come la panacea per i mali d’Italia (mentre l’Europa si aspetterebbe altre riforme, ci ricorda l’Economist) alla voluta deformazione della realtà legislativa in Italia (su numero, tempi e “rimpalli” delle leggi); dal “non è un referendum sul Presidente del Consiglio” alla straripante presenza di Renzi in ogni mezzo d’informazione (di contro, avete sentito una volta sola Smuraglia, il presidente dell’ANPI che ha promosso i Comitati del NO?); dagli argomenti populisti usati dal partito di governo per strappare un Sì all’ evocazione, un po’ autolesionistica, di cupi scenari futuri se vincesse il NO; per finire ai metodi clientelari impiegati per generare consenso alla riforma: e non penso solo al De Luca campano, ma a quella insistita (e miope) “politica delle elargizioni” attuata dal Governo e denunciata da Mario Monti.
Ancora di più meriterebbe scrivere sul metodo con cui si è arrivati a definire la riforma. Con l’anomalia di un “governo costituente” (una vera bestemmia giuridica per un Calamandrei o un Mortati) e il voto di un Parlamento eletto con una legge (il Porcellum) dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Parlamento che, per la necessaria “continuità dello Stato”, continua ad operare legittimamente sino a nuove elezioni. Ma è giusto/normale/opportuno che un’Assemblea composta da nominati (di cui ben 250 hanno nel frattempo cambiato casacca) scelti dai partiti e non dai cittadini (primo aspetto di incostituzionalità), e “drogata” nella composizione da un enorme premio di maggioranza (secondo aspetto anticostituzionale), arrivi a cambiare un terzo della Costituzione?
Veniamo al merito.
Sono quattro le obiezioni di fondo alla riforma Renzi-Boschi, che la fanno ritenere peggiorativa rispetto alla Costituzione attuale.
La prima è la riduzione della sovranità del cittadino con l’esproprio progressivo del diritto di voto. Dopo aver sottratto al corpo elettorale la scelta di chi amministra l’area vasta – con i consiglieri delle Città metropolitane (dove queste hanno sostituito le abolite Province) eletti dai solo consiglieri comunali – ora si passa a eliminare la scheda elettorale per il Senato. Anche qui vi sarà una elezione di secondo livello: “I Consigli regionali (…) eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori” (art. 57, comma 2). Quindi saranno i consiglieri regionali a eleggere i senatori. Cioè a sceglierli. Con buona pace di chi si aggrappa all’ormai celebre inciso inserito stranamente nel comma 5 (dove di parla della durata del mandato): “(senatori) eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Frase oscura, in contrasto con il lapidario comma 2, ma che finirà per indicare solo la banale rispondenza proporzionale tra il voto popolare per il Consiglio regionale, depurato dal premio di maggioranza, e i senatori scelti dai Consigli. Ogni altra interpretazione confligge con la lingua italiana e con la logica.
Togliere potere di scelta al cittadino elettore è una deriva inaccettabile per ogni democratico “popolare”: uso l’aggettivo a noi caro nel senso originale, riferito al popolo, che è sovrano. Pensiamo che dalle elezioni del 2006, e poi per altre due volte, i parlamentari non sono stati scelti dai cittadini ma dai capi partito. La fedeltà, che scade spesso nel servilismo, ha prevalso sul consenso, l’autonomia, la capacità. Se la sfiducia nei partiti ha superato il 98% nei sondaggi e il discredito della classe politica è purtroppo generalizzato, non è solo colpa dei troppi casi di malapolitica a tutti i livelli: riguarda anche l’involuzione verso i partiti personali e il calo della partecipazione, cercato e ottenuto nella cosiddetta Seconda Repubblica.
Un secondo motivo di opposizione alla riforma sta nell’alterazione dell’equilibrio costituzionale a favore dell’esecutivo. Per capire questo punto bisogna necessariamente considerare il “combinato disposto” con la legge elettorale, l’Italicum, in vigore dal 1° luglio scorso. C’è chi sostiene che la legge elettorale non c’entra con la riforma costituzionale: se vuole puntualizzare che si tratta di una legge ordinaria a parte, ricorda un banale dato di fatto; se invece intende dire che la legge elettorale è “neutra”, estranea e senza ripercussioni sulla composizione e qualità del Parlamento, allora è semplicemente in malafede.
Sulla legge elettorale la nostra Associazione aveva tenuto un seminario, i cui lavori si sono conclusi con un documento diffuso nel febbraio 2014. Non si levò allora nessuna voce contraria ai contenuti espressi. Per chi volesse leggerli o rileggerli, allego il documento in coda all’articolo. Il nostro giudizio è che l’Italicum, approvato in seguito con parziali e insufficienti modifiche, vale il Porcellum. Elimina il rischio di maggioranze diverse tra le due Camere (con il premio al Senato su base regionale voluto da Berlusconi per depotenziare la vittoria di Prodi nel 2006) e introduce le preferenze che però – con i 100 piccoli collegi nazionali e i capilista sicuri primi eletti – permetteranno ai cittadini di scegliere meno della metà dei parlamentari, e solo per gli elettori della lista vincente. Insomma, i nominati si ridurranno dal 100% al 55-60%. Sarebbe più gradito un numero tendente a zero, ma prendiamolo come un passo avanti. Dove invece si peggiora è nel premio di maggioranza, già bocciato dalla Corte Costituzionale. Diventa ancora più abnorme. La legge prevede sì la soglia del 40% dei voti validi per ottenere il 54% dei seggi, ma nella realtà italiana quel 40 si riduce al 30% delle tre maggiori forze in campo, che significa poi il 17-18% di consenso reale nel Paese, considerato l’astensionismo. E il ballottaggio del “meno peggio” potrà aumentare di poco le percentuali. Così avremo un vincitore che, con un consenso nel Paese inferiore a un quarto degli elettori, otterrà più del doppio di deputati alla Camera, l’unica che voterà la fiducia al Governo. Un governo che sarà espresso dal vincitore: di fatto la minoranza più forte, ma pur sempre una minoranza a cui questa riforma consente di vincere tutto con il 20-25% dei consensi. Ecco come si apre una comoda via d’accesso al governo di pochi, che sia una oligarchia dei poteri forti o del populismo.
E chi vota per cambiare la Costituzione pensando di favorire il proprio leader del cuore, pensi invece al governo del politico che più detesta: rivaluterà i “limiti” imposti dalla Costituzione.
Dopo oltre due decenni di bipolarismo muscolare, che ci ha avvicinati all’America oggi guidata da Trump, sull’altare della governabilità stiamo sacrificando ogni altro elemento costitutivo della politica: la rappresentanza sociale, il confronto di idee, la mediazione di interessi verso il bene comune.
La rappresentanza artificiale e falsata conseguente al “combinato disposto” è la maggior critica che l’ANPI porta alla riforma. A furia di inseguire la governabilità sminuendo il valore della rappresentanza, abbiamo già quasi metà degli elettori che diserta le urne. E con la trasformazione del Senato, eletto dai Consigli regionali, non c’è più in Italia un’Assemblea che rappresenta la nazione, il popolo, nella sua articolazione e complessità. Ci ricorda Guido Bodrato che chi non trova voce e rappresentanza nelle istituzioni, la cercherà nelle piazze.
Terzo buon motivo per votare NO è il pasticcio di competenze tra Camera e Senato, e la composizione di quest’ultimo. Sulle competenze vi invito a leggere il nuovo articolo 70, che sostituisce il precedente, semplice e lapidario: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Il nuovo testo non è solo molto più lungo (438 parole contro 9) perché la divisione di competenze richiede che si spieghi cosa fa un’Assemblea e cosa l’altra: è una sequenza di frasi con rimandi a leggi, articoli e commi che lo rendono incomprensibile non solo all’italiano medio, ma anche ai dottori in giurisprudenza. I costituzionalisti non hanno ancora chiaro se vi saranno 7 o 9 o 11 diversi iter legislativi. Alla faccia della tanto sbandierata semplificazione. Si prevedono conflitti tra le Camere.
Ma ancora peggio è la trasformazione del nuovo Senato, formato da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 nominati dal Presidente della Repubblica. Non sarà un Senato delle Regioni perché i consiglieri rappresentano i propri partiti e non il proprio governo locale, come in Germania. Con questo Senato non si potrà fare a meno neppure della Conferenza Stato-Regioni. È stato definito un “senatucolo”, una specie di dopolavoro romano per consiglieri regionali in cerca di immunità. E probabilmente finirà col diventarlo. Peccato, perché le competenze assegnategli all’art. 55, oltre a quelle legislative proprie specificate nell’oscuro art. 70, sono notevoli: “funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica” (tutti gli enti!) “e l’Unione Europea”, di cui “partecipa alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche” (tutte le politiche europee!); “valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni” (tutte!) “e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori”; infine, “concorre a esprimere pareri sulle nomine del Governo (…) e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato” (tutte le leggi!). C’è da perdersi in tanto lavoro, che si somma all’esame delle leggi approvate dalla Camera nel termine perentorio di dieci giorni per proporre correttivi e modifiche nei successivi trenta. E la riforma affida tale gravoso compito a sindaci e consiglieri regionali come secondo lavoro, uno o due giorni la settimana. Delle due l’una: o le competenze sono state scritte con lo spirito delle grida manzoniane, parole vuote senza rispondenza con la realtà, oppure si richiederà un superlavoro ai neo senatori. Che però avrebbero richiesto per tale ruolo l’investitura popolare e non una elezione di secondo livello.
Infine, il quarto motivo essenziale di contrarietà alla riforma sta nei cambiamenti del Titolo V. Per gli Enti locali si tratta di una vera “controriforma” , un cambio di rotta verso il centralismo, in continuità con la sciagurata legge Delrio.
Su questo ambito ci confronteremo domani mattina con Davide Gariglio, e non vorrei togliere interesse al dibattito anticipando le mie argomentazioni. Per chi non potrà partecipare, mi riprometto di esporle in un successivo articolo. |