La funzione principale di un insegnante di economia è di mostrare che ogni questione ha (almeno) due facce. Nel caso della riforma costituzionale (a fortiori per le leggi elettorali), il dibattito si concentra su due questioni di difficile e instabile conciliazione: governabilità e rappresentanza. Prescindo dalle tesi di coloro che , con scarsa coerenza rispetto a posizioni assunte nel passato, si muovono meramente nell’ottica del renzicidio.
I sistemi democratici ricercano una composizione tra i due casi polari: Kemal Ataturk, l’autocrate riformatore della Turchia moderna, ad un estremo. E all’altro il Sejm, l’ultrademocratico parlamento polacco. L’unanimità era l’unica regola: il “liberum veto”, anche di un solo membro, bloccava ogni decisione. Secondo molti storici, questo sistema impedì la formazione di solidi governi nazionali, e spianò la strada alle spartizioni della Polonia da parte dei voraci vicini, e quindi alla sua sparizione.
Quale è la posta della (o della mancata) riforma? Viene ricordato che il Senato non differenziato è un “inutile doppione” (Mortati): e ancora che “abbiamo dato corpo a certe strutture non perché funzionassero, ma perché fossero deboli” (Dossetti).
Quali le possibili conseguenze? Qualche anno fa Piero Angela presentò un programma televisivo sull’economia. In particolare raffigurava le classificazioni internazionali su vari temi, civili, sociali, economici, come rappresentabili ciascuna su di un edificio a più piani, cantine e sotterranei compresi. Ed era lì, molto molto sotto, che per solito veniva a collocarsi l’Italia. Al quint’ultimo, terz’ultimo posto dopo la Colombia, la Bulgaria, il Burundi, e non solo per malavita, evasione fiscale, corruzione. Presumo che siamo al primo posto quanto a numero di governi: 62 in circa 70 anni. Mariana Mazzucato, studiosa dello Stato innovatore, potrebbe forse stabilire un nesso causale tra queste situazioni.
Coloro che paventano nella riforma un eccesso di esecutivo (Zagrebelsky), optano per la tesi del “Governo minimo”. È logico chiedersi quali scostamenti, negli effetti concreti, abbia questa posizione, rispetto ai sostenitori dello “Stato minimo”, propugnato dall’ortodossia liberista della Mont Pélerin Society.
La riforma contempla un ridisegno delle competenze tra Stato e Regioni. Due a mio avviso le poste in gioco. Dal 2008 l’economia mondiale è entrata in una fase recessiva, con conseguenze peggiorative in termini di attività produttive e di tassi di disoccupazione. Gli Stati Uniti hanno optato per una strategia di sostegno della crescita e dell’occupazione mediante politiche sia monetarie che di bilancio. Al contrario Eurolandia è rimasta vittima dei mantra tedeschi, tesi ad escludere ogni politica di bilancio. Le strategie disegnate nel 1936 da J.M.Keynes, volte a sopperire con investimenti pubblici alla stagnazione dell’economia, solo negli ultimi tempi cominciano a farsi strada. Anche la politica monetaria più espansiva della BCE è stata avversata, senza dimenticare i limiti di uno strumento – quello monetario appunto – che è come una corda: utile per tirare , scarsamente efficace per spingere.
Molti propendono per uno scenario da “stagnazione secolare”. Andamenti demografici e sviluppo delle tecnologie informative sembrano aggravare questo quadro. Milton Friedman, il liberista maestro della scuola monetaria di Chicago, criticò le politiche espansive di tipo keynesiano: a suo dire, esse risentivano, nella loro attuazione, di una serie di ritardi intercorrenti tra il momento dell’insorgere della emergenza economica, necessitante l’azione pubblica stabilizzatrice, e il momento dell’efficacia dell’azione stessa. Friedman non aveva previsto, tra questi fattori capaci di inficiare le strategie keynesiane di bilancio, che la fantasia italica avrebbe introdotto nuovi elementi di impaludamento dell’azione pubblica: mi riferisco alle “competenze concorrenti” tra Stato e Regioni, previste dalla riforma del 2001 in campi stategici per gli investimenti pubblici.
Non dobbiamo tanto dolerci del fatto che i circa 1300 ricorsi alla Corte costituzionale abbiano sovraccaricato la medesima di un superlavoro, tale da determinare una “bancarotta costituzionale”. Quanto delle mancate o ritardate opportunità di investimento che questa caotica situazione ha ingenerato. La mancata approvazione della riforma è destinata a perpetuare queste situazioni e a rendere meno attrezzato il nostro paese nel fronteggiare le emergenze occupazionali.
L’ultimo punto concerne il sistema di protezione sociale, e in particolare la sanità pubblica. In questo campo la riforma ridisegna le competenze tra Stato e Regioni, riaccentrando talune responsabilità. Anche qui quale la posta in gioco? Aneurin Bevan, il ministro laburista che nel 1948 introdusse il National Health Service britannico, optò per un sistema totalmente statale: il principio di pari opportunità di accesso, insito in un servizio, che si voleva universale e egualitario, non sarebbe stato realizzabile pienamente in regime di autonomia regionale e locale: più un servizio pubblico è decentrato a Regioni e/o a Comuni, più il cittadino è trattato in modo diseguale. In Italia non abbiamo un Servizio sanitario nazionale, bensì 20 Servizi sanitari regionali: recenti statistiche evidenziano profondi divari tra Regione e Regione, e non solo a causa delle diverse dotazioni finanziarie. Varie voci, cito il presidente della Regione Piemonte Chiamparino, propendono per una maggiore responsabilità dello Stato in questo settore.
Queste le poste in gioco economiche e sociali, che mi inducono al Sì per la riforma.
Lo scrivente è stato docente di Scienza delle Finanze nell’Università di Torino, nonché Sindaco di Ivrea e Vicepresidente della Provincia di Torino. |