L’attuale negativa situazione economica, con le sue pesanti ricadute (disuguaglianze, disoccupazione, lavoro precario e mal retribuito, impoverimento del ceto medio, ecc.), non basta a motivare la crescente rabbia dei ceti popolari e di quella classe media che un tempo era definita “moderata”. Per aiutarci a capire le cause del terremoto che sta destabilizzando i vertici del mondo politico occidentale, può essere utile la rilettura di alcuni scritti di noti intellettuali dimostratisi capaci di interpretare la società globale.
All’inizio degli anni Novanta, allorché stava prendendo piede la globalizzazione, Agnes Heller, un’allieva del filosofo marxista ungherese Gyorgy Lukacs, in un articolo su “il Mulino” intitolato Dove ci sentiamo a casa?, affronta un problema specifico della modernità, e di una democrazia in bilico fra comunità e civiltà di massa, fra sentimento di appartenenza e volontà di apertura. Nell’articolo, Agnes Heller, fra i vari personaggi descritti, ci presenta una signora, seduta nel posto accanto al suo, conosciuta su un aereo diretto in Australia. Alla domanda: “Dove si sente a casa?”, la signora rispose: “Forse dove vive il mio gatto”. La persona in questione era una dirigente di una azienda attiva nel commercio internazionale e possedeva tre appartamenti in nazioni diverse (in uno dei quali viveva un gatto accudito dalla domestica). Per la viaggiatrice, non fa differenza il posto in cui si trova, vive in diversi luoghi. La signora dell’aeroplano è una persona geograficamente poligama: la sua casa è un posto dove non c’è un marito, né un figlio e neppure un cane (che ha un legame con il padrone), ma c’è il suo gatto (che non è fedele al padrone ma a un luogo). La signora non sa indicare dove sia la sua casa perché la sua vita non ha un centro. Si muove continuamente tra molti posti; lo fa da sola e non porta con sé nessun bagaglio culturale. Infatti, non ne ha bisogno, perché il tipo di cultura che condivide non è la cultura di un certo posto, è la cultura del presente, ovunque identica nei luoghi che frequenta. Ma, vivere totalmente immersi nel presente senza alcuna radice è limitante: richiede un’astrazione totale dalla sensibilità, dall’emotività e dalla partecipazione; e così si ricade in una regressione, quella di un mondo superficiale, dedito alla salute fisica, alla ricerca del puro benessere e della pura corporeità. Questa signora è una tipica esponente di quel ceto emergente prodotto dalla società globale.
Analoga è la descrizione che Zygmunt Bauman ci dà dei membri di quella società cosmopolita a cui appartiene la signora dianzi descritta. Nella società odierna, plasmata dalla mondializzazione, le persone affermate della cosiddetta élite meritocratica non hanno più significativi legami con alcuna comunità che sia caratterizzata da vincoli di solidarietà; tuttavia, per un generico bisogno di socialità e per staccarsi dalla vita normale e dal contatto con gli intrusi, esse si rifugiano in associazioni chiuse ed esclusive (circoli, club); cercano luoghi di aggregazione ovunque simili, dove si incontrano soggetti con le stesse loro caratteristiche: la dimensione sociale dello stare insieme è qui intesa come ricerca dell’identicità.
Jeremy Rifkin ci spiega le cause che stanno alla base di questo modo di vivere povero di solidi rapporti sociali, tipico del nuovo ceto affermatosi con la globalizzazione. Se le attività degli esseri umani non sono più collegate a un territorio di appartenenza, diventa impossibile conservare il concetto di solidarietà collettiva e il concetto di lealtà a un Paese, requisiti fondamentali per la sopravvivenza del senso di coesione nazionale e sociale. Le relazioni tradizionali nascono da sentimenti e da realtà (fratellanza, appartenenza, legame col territorio, fedi e culture condivise) tenute insieme dal concetto di dovere reciproco e da quello di destino comune; in esse, l’orizzonte temporale è esteso, fondato sul debito verso le generazioni precedenti e gli obblighi verso le successive. Invece, denuncia Rifkin, in una società globale, in cui tutto avviene prevalentemente nella sfera economica, le relazioni sono mercificate e strumentali, tenute insieme dal prezzo della transazione; sono contrattuali, non reciproche, essendo sostenute da interessi condivisi solo per il tempo strettamente necessario a soddisfare gli obblighi concordati. Così la dimensione culturale del vivere (che presuppone un ancoraggio a luoghi e coltiva la memoria e il patrimonio ricevuti dalle precedenti generazioni) si atrofizza e non è più in grado di creare e di mantenere il capitale sociale.
Nella descrizione di Rifkin, sembra proprio di vedere quanto sta oggi accadendo.
Il modo di vivere del ceto dominante, ci suggeriscono i media, presto sarà comune a tutti poiché rappresenta una tendenza destinata ad imporsi a quanti, in numero crescente, vivono prevalentemente nella dimensione della modernità. Fortunatamente ci sono persone (ancora la maggioranza) che sono vincolate a luoghi, che coltivano legami, che conservano memorie, che seguono riferimenti culturali derivanti da quei luoghi, da quei legami e da quelle memorie. Si tratta della gente comune, mentre, ci dice Zygmunt Bauman, nella società odierna, plasmata dal mercato globale, sono in particolare le persone affermate della cosiddetta élite meritocratica a non manifestare più alcun sentimento di appartenenza alla società in cui momentaneamente si trovano a vivere, perché questa non offre loro nulla che già non abbiano o che non possano ottenere autonomamente. I membri dell’élite meritocratica vanno dove le opportunità sono maggiori; si sentono cittadini del mondo, senza doveri verso alcuna comunità territoriale.
Chi sono i membri di questa élite meritocratica? Sentiamo Christopher Lasch, storico delle idee e sociologo statunitense, morto negli anni Novanta, ma recentemente riscoperto dai media americani perché quanto ha scritto (in La ribellione dell’élite) aiuta a comprendere l’odierno rigetto dell’establishment da parte di una crescente parte della popolazione, come ci hanno mostrato i recenti fatti americani.
La moderna élite, definita anche “la nuova classe”, dice Lasch, comprende quanti determinano il flusso internazionale del denaro e dell’informazione, i signori della finanza e i manager delle grandi imprese, coloro che dirigono le fondazioni filantropiche e le istituzioni di studi superiori, unitamente ai titolari dei più avviati studi professionali e agli esponenti politici che di tale classe si fanno portavoce. Ne sono figure preminenti coloro che controllano gli strumenti della produzione culturale e definiscono quindi i termini del dibattito pubblico, determinando, con strumenti diversi, le opinioni, le mode e i modelli del vivere. Ne sono componenti anche i VIP, i personaggi del mondo sportivo, dello spettacolo e dei media ai quali spetta il compito di rendere popolari i nuovi modelli comportamentali; in particolare le celebrità dell’intrattenimento assumono la funzione di critici sociali.
Inoltre, i vari circoli del potere (finanza, governo, arte, intrattenimento) tendono a sovrapporsi e, sovente, a diventare intercambiabili.
Questa nuova élite si riconosce nella condivisione delle idee liberiste e libertarie. È cosmopolita e pertanto manca della continuità che deriva dal senso di appartenenza a un luogo, a un ambito nazionale o territoriale. Non possiede standard di condotta coscientemente coltivati e trasmessi da una generazione all’altra. Caratteristica comune degli appartenenti alla nuova classe è la vocazione migratoria: infatti la volontà di far carriera nelle industrie e nelle professioni richiede la disponibilità a seguire il canto delle sirene dell’opportunità, ovunque esso chiami. Il venire meno di ogni appartenenza territoriale non lascia al patriottismo uno spazio significativo nel cuore dei membri dell’élite.
Il multiculturalismo si adatta loro alla perfezione, rappresentando una sorta di bazar globale in cui cucina, modi di vestire, musica e altri prodotti esotici possono essere assaporati “alla carta” senza problemi o impegni.
Arroganti e insicure, le nuove classi privilegiate guardano alle masse con una mescolanza di disprezzo e di apprensione ritenendole rozze, fuori moda, provinciali, disinformate sulle trasformazioni del gusto e delle tendenze intellettuali, razziste, omofobe e fondamentaliste in tema di religione. A motivare questi giudizi negativi, denunciano che la classe operaia e le classi medie lavoratrici non hanno rinunciato all’idea di nazione e di famiglia biparentale, si oppongono agli stili di vita “alternativi”, nutrono riserve nei confronti delle politiche di azione affermativa (a favore di donne, minoranze ecc.) e di altri tentativi più o meno azzardati di ingegneria sociale. In pratica le classi popolari vengono demonizzate perché conservano quel realismo e quel buon senso di cui l’attuale borghesia liberal pare ormai priva. Una volta, scrive Lasch, la ribellione delle masse popolari era ritenuta (dai moderati) una minaccia per l’ordine sociale e le tradizioni di civiltà della cultura occidentale. Ai nostri tempi, invece, la minaccia principale sembra venire da chi si trova al vertice della gerarchia sociale.
Oggi, possiamo tutti rilevare la frattura crescente che si è instaurata tra le élites e le masse popolari. La spietata rappresentazione che Lash dà delle élites ai vertici dei Paesi occidentali ce ne fa capire le motivazioni. La nuova classe, in questi ultimi decenni, ha gradualmente occupato ogni posizione di potere nell’establishment, rompendo ogni continuità con i valori in cui la gente comune si riconosceva e ancora in larga misura si riconosce. Essa non si è solo isolata dalla gente, di cui non percepisce esigenze, preoccupazioni e speranze, ma non è più in grado di vedere la realtà alla quale guarda con gli occhiali deformanti dell’ideologia neoliberale che si esprime nel politicamente corretto. In ogni società, le élites hanno un ruolo importante, ma questa sedicente élite globale, diventata un gruppo chiuso in se stesso, ha perso totalmente la fiducia di coloro che pretende di rappresentare e guidare. Ed è destinata al fallimento. |