Proseguiamo nel dibattito sul referendum con un intervento di Valerio Onida, docente emerito della Statale di Milano ed ex presidente della Consulta, tra i più autorevoli esponenti della cultura costituzionale di matrice cattolica, nel solco di Costantino Mortati e Leopoldo Elia. Onida è stato tra i 56 firmatari del documento dei costituzionalisti per il NO alla riforma. Questo articolo è tratto da Agenda Domani, rivista on-line di area cattolico-democratica.
Il mio voto è un “no”, per ragioni di metodo e di merito.
Per quanto riguarda il metodo, si tratta anzitutto non di una puntuale revisione di un aspetto preciso della parte organizzativa della Costituzione, ma di un insieme eterogeneo di cambiamenti che toccano molti aspetti di quella parte: dalla struttura del Parlamento (il nuovo Senato) ai rapporti fra Governo e Parlamento nei procedimenti legislativi, al riparto delle competenze fra Stato e Regioni, al sistema degli Enti locali (abolizione delle Province), all’elezione del Presidente della Repubblica e di una parte dei giudici della Corte costituzionale, ai referendum e all’iniziativa legislativa popolare, al controllo di costituzionalità sulle leggi elettorali, alla soppressione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, e ad altro ancora. In questo modo il referendum non offre agli elettori la possibilità di dire consapevolmente un sì o un no su un oggetto preciso o, distintamente, su più oggetti specifici, ma si trasforma in una specie di plebiscito sul programma costituzionale “complessivo” della maggioranza politica che ha voluto la legge, che l’elettore può solo approvare in blocco o respingere in blocco.
In realtà si sconta qui la pericolosa eredità di un dibattito trentennale sulla presunta esigenza di una “grande riforma” o addirittura di una “nuova Costituzione” (già sconfitta nel referendum del 2006), motivata dal presunto carattere “sorpassato” o obsoleto della Costituzione del 1948. La Costituzione non “invecchia”, ma è fatta per durare, perché esprime ciò che di durevole e stabile riguarda i fondamenti della nostra convivenza civile. Singole revisioni sì, ma non, per favore, “grandi riforme” a pacchetto.
Sempre sul piano del metodo, la riforma, partita in base a un intento di ampia convergenza delle maggiori forze politiche, alla fine si è risolta in una riforma “di maggioranza”, voluta dal Governo e portata avanti in Parlamento solo da un maggioranza di governo per di più ondivaga. La Costituzione è la “casa comune” e tale deve restare. Non possiamo accettare che ogni maggioranza che cambia si faccia la “sua” Costituzione.
Su piano del merito, c’è, è vero, qualche innovazione apprezzabile (ad esempio la previsione secondo cui il Governo può chiedere alla Camera di stabilire una data certa entro la quale delibererà definitivamente su un certo progetto di legge rilevante per il suo indirizzo, o quella che consente il controllo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali prima della loro promulgazione). Ma c’è molto altro, e soprattutto ci sono due capitoli maggiori il cui contenuto a me pare assai critico: la riforma del Senato e quella dei rapporti fra lo Stato e le Regioni.
L’idea di partenza di fare del Senato una Camera rappresentativa delle istituzioni territoriali è buona, ma è attuata male, per la composizione e per le funzioni del nuovo Senato. Esso sarebbe composto da 95 senatori eletti dai consigli regionali fra gli stessi consiglieri e (uno per Regione), fra i Sindaci, con sistema proporzionale, così che finirebbero per portare in Parlamento non la “voce” unitaria delle rispettive Regioni (il Sindaco poi non rappresenterebbe né la Regione, né i Comuni, essendo eletto dal consiglio regionale), ma quella dei rispettivi partiti. A questi senatori se ne aggiungono, come un fuor d’opera, cinque nominati per sette anni (e non rinnovabili) dal Capo dello Stato fra cittadini che abbiano “altissimi meriti”, in sostituzione degli attuali senatori a vita.
Quanto alle funzioni, il nuovo Senato sarebbe debolissimo, perchè per la maggior parte delle leggi (comprese quelle che più da vicino riguardano e interessano e Regioni) potrebbe solo, entro brevissimi termini, proporre emendamenti ai testi approvati dalla Camera, la quale potrebbe accettarli o respingerli.
In realtà si parte dall’idea sbagliata che sia necessario rendere più semplice e più rapido il procedimento legislativo, quando il problema dell’Italia non è quello che non si riesce ad approvare tempestivamente le leggi, ma quello opposto di avere troppe leggi, fatte spesso male, e continuamente modificate a distanza anche brevissima di tempo, così che il sistema normativo soffre di instabilità, incertezza e precarietà. E quando qualche provvedimento necessario tarda, non è per i difetti del procedimento bicamerale, ma per mancanza del consenso politico.
Il rapporto fra lo Stato e le Regioni viene radicalmente cambiato, in senso centralistico, rispetto a quello recato dalla riforma costituzionale del 2001 (solo 15 anni fa, e sono sempre le stesse forze politiche di centrosinistra, oggi come allora, a volerlo). Le materie più importanti per le comunità territoriali, come il governo del territorio, la sanità e i servizi sociali, l’istruzione professionale, il turismo, vengono trasferite dalla competenza legislativa delle Regioni o da quella “concorrente” (per cui lo Stato stabilisce i principi fondamentali, il resto lo fa la Regione) alla competenza “esclusiva” dello Stato, che potrà lasciare alle Regioni solo lo spazio che vorrà. Anche qui, si parte da una diagnosi sbagliata, addebitando alle forme di competenza “concorrente” la responsabilità di incertezze e di conflitti, quando il vero problema è che lo Stato non riesce o non vuole fare leggi generali e di principio, pretendendo invece di ingerirsi in ogni più minuto dettaglio della disciplina di ogni materia.
Sul piano dei poteri locali si prevede l’abolizione delle Province in tutte le Regioni, anche le più grandi (dove quindi si verificherebbe una ulteriore forma di accentramento).
Le parole chiave di questa riforma, stando ai suoi stessi fautori, sembrano essere quella della “riduzione” dei costi di funzionamento delle istituzioni e del numero dei “politici (impropriamente si parla di “poltrone”, come se le funzioni elettive fossero delle sinecure), e quindi indirettamente di una svalutazione del significato delle assemblee elettive, centrali e locali. Ma le istituzioni non si riformano “per risparmiare”, e non si tagliano i “costi della democrazia”. Il numero dei parlamentari non si decide in base al “costo” (se le indennità sono eccessive, si debbono ridurre per legge, la Costituzione non c’entra), ma in base a criteri di rappresentatività e di efficienza. Si riduce a cento il numero dei senatori, ma i deputati restano 630, con l’ulteriore negativa conseguenza che nel Parlamento in seduta comune (che elegge fra l’altro il Presidente della Repubblica) la Camera avrebbe una schiacciante presenza maggioritaria: e in ultima istanza il Presidente della Repubblica potrebbe essere eletto con il voto di tre quinti dei “votanti”, quindi anche meno della metà dei componenti dell’assemblea, in caso di assenze dall’aula più o meno “combinate”.
Dunque parole d’ordine sbagliate e demagogiche, che inseguono i peggiori umori dell’antipolitica. Non è un buon segnale per la salute delle nostre istituzioni costituzionali. |