Il 23 settembre 1916, esattamente cento anni fa nasceva a Maglie, in provincia di Lecce, Aldo Moro, uno dei massimi protagonisti del primo trentennio dell'Italia repubblicana. Una vita stroncata d'improvviso nella tragica primavera del 1978, quando lo statista democristiano venne dapprima rapito in via Fani, con il massacro dei cinque uomini della sua scorta (16 marzo) e poi barbaramente assassinato quasi due mesi dopo (9 maggio). Cinquantacinque giorni nei quali l'Italia visse una sorta di colpo di Stato in due sequenze che cambiò per sempre i connotati della politica. Ma adesso non vogliamo parlare della tragica morte di Moro, bensì ricordarne il centenario della nascita, provando a leggere per sommi capi la vita politica, prescindendo, per quanto possibile, dal suo feroce e assurdo epilogo.
Aldo Moro fece il suo esordio nella sfera pubblica quando era ancora universitario, nel 1939, divenendo presidente della FUCI. Nel dopoguerra viene eletto all'Assemblea costituente, facendo parte della Commissione dei 75, incaricata di redigere la Carta costituzionale. Diviene uno degli uomini chiave della politica italiana a partire dal 1959 quando assume la segreteria della DC in sostituzione di Amintore Fanfani, disarcionato da una manovra dei dorotei, infastiditi dal suo eccessivo dinamismo. Come il professore toscano, anche Moro appartiene alla corrente di sinistra, avversata dal moderatismo doroteo, ma lo fa a modo suo, senza impuntature ideologiche. È un tessitore più che un condottiero: cautela e predilezione per i tempi lunghi si rivelano le costanti di tutta la sua azione politica.
La trama che sta tessendo in quel periodo è il centrosinistra: fare entrare i socialisti (in rottura con il PCI dopo i fatti di Ungheria) nell’area di governo. Mezza DC è contraria all’apertura a sinistra, un’operazione su cui Fanfani ci ha rimesso la leadership. Moro, invece, riesce a convincere l’intero scudo crociato con un memorabile intervento al congresso di Napoli del 1962. L’anno successivo è dunque chiamato a guidare il primo governo che vede la partecipazione del PSI, anche se, come spesso accade nella politica italiana, la svolta a sinistra ha ormai esaurito il suo slancio riformatore, appiattendosi su una navigazione a vista che la porterà a deperire nel giro di pochi anni.
Toccò ancora a Moro aprire a metà anni Settanta una nuova, ed ancor più ambiziosa, fase politica: il compromesso storico col PCI. Una strategia che partiva da una proposta del segretario comunista Enrico Berlinguer che, dopo il golpe cileno e i timori di una svolta autoritaria anche in Italia, parlò di una grande patto tra le forze popolari che avevano fatto la Costituzione. Lo statista pugliese colse la palla al balzo, elaborando un percorso di ampio respiro volto a realizzare un bipolarismo europeo DC-PCI, con una prima fase di condivisione delle responsabilità di governo. Includere il PCI, che rappresentava un terzo dell’elettorato, parve a Moro la risposta più appropriata per superare le enormi tensioni di quegli anni, tra crisi economica e terrorismo.
Ai primi del 1978 quando l’ingresso del PCI nel governo pareva imminente, via Fani fece fallire lo storico appuntamento. Ancora non sappiamo con certezza se l’azione delle BR fu spalleggiata da altre forze occulte, ma è chiaro che l’uscita di scena di Moro faceva comodo a tutto quell’universo ultra conservatore che ruotava attorno alla loggia P2, ben radicato nell’amministrazione e nei servizi segreti, con un disegno autoritario agli antipodi con le aperture morotee.
Con la scomparsa di Moro tutto si bloccò e da quel momento in poi iniziò una lenta involuzione della politica italiana che avrebbe condotto alla fine della Prima repubblica, tra questione morale e totale incapacità di avviare un percorso di riforma.
Aldo Moro resta senza dubbio l’esponente politico che più di tutti intuì i problemi della nostra vita politica, chiamata a confrontarsi con le grandi trasformazioni che stavano attraversando la società italiana. Senza assegnare alla politica una missione salvifica, pensava che essa dovesse accompagnare l’evoluzione della società, lasciando che il suo corso si svolgesse il più liberamente possibile. Anche le istanze più radicali, potevano venir ricomposte e assimilate dal confronto democratico. Essenziale era invece evitare, ad ogni costo, lo scontro; puntando piuttosto sulla composizione delle molteplici istanze in gioco, con la massima inclusione possibile.
E qui si denota, nel modo più nitido, quella concezione della DC, già propria di De Gasperi, quando parlava di partito di centro che cammina verso sinistra. Sinistra non da intendersi come mera espressione politica, ma nel senso, ben più ampio, di accrescere la partecipazione dei ceti meno favoriti, sempre esclusi dalla vita pubblica, promuovendone l’ascesa economica e sociale. Una prospettiva che, in fondo, alimenta le ragioni stesse della politica e rende sempre vivido e fecondo il pensiero del grande statista democristiano. |