Il 23 settembre, alla presenza del Presidente della Repubblica, si è svolta al Quirinale una cerimonia in ricordo di Aldo Moro, nel Centenario della nascita dello statista pugliese, l'uomo più importante, dopo Alcide De Gasperi, per la storia della democrazia italiana. Gli incontri organizzati in ricordo del leader della DC, a quasi trentotto anni dalla strage di via Fani, invitano a riflettere sull'attualità del magistero politico di un uomo che ha ispirato la sua azione al messaggio cristiano e alla politica come servizio verso la comunità.
Nella cerimonia del Quirinale la relazione sulla politica morotea è stata tenuta dallo storico Beppe Vacca; quella sulla formazione e sulla profonda spiritualità di Aldo Moro da Renato Moro, docente all'Università di Roma e suo nipote. A conclusione dell'incontro, Sergio Mattarella, dopo aver esortato a non pretendere di attualizzare Moro, poiché “si correrebbe il rischio di deformarlo e di travisarne lineamenti e personalità”, ha insistito sul coraggio di un politico che – tra i politici di quegli anni – “è stato il meno dogmatico, il più aperto alle novità... sempre aperto alla ricerca del dialogo”. Prima di decidere Moro sapeva ascoltare le voci critiche, poiché aveva “una vocazione all'intesa e la consapevolezza del valore del confronto”.
Commentando il discorso del Mattarella, Marzio Breda, storico “quirinalista” del “Corriere della Sera”, ha scritto che è difficile non cogliere nell'eredità di Moro, per come la traccia Mattarella, suggestioni riferibili al presente, ad esempio “quando, quasi en passant, racconta il modo di comunicare dello statista DC, “che rifuggiva da annunci fine a se stessi o da gesti plateali che avrebbero sfiorato la realtà in modo illusorio, senza riuscire ad incidervi”.
La mia riflessione su questa ripresa di interesse per la testimonianza e la strategia di Moro – che sembrano tornare di attualità in questa fase della politica nazionale ed europea – può iniziare da un libro che lo considera una delle più importanti figure della “stagione montiniana”. Giovan Battista Scaglia, l’autore, ha vissuto con Moro gli anni dell'università, tra la metà e la fine degli anni '30, quando Moro era il presidente della FUCI ed il cardinal Montini ne era assistente ecclesiastico, e lo ha affiancato come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio negli anni '60/'70. Le pagine di questo libro permettono di collocare Moro nel tempo “che gli è stato dato di vivere”, e di ricordare “lo studioso che ha portato nella politica il suo abito mentale di severità, di ponderatezza, di cautela; uno studioso che precede senza impazienza, senza avventatezza, tenendo conto di tutto, dei fatti e delle opinioni, delle notizie e dei consigli, sapendo che alla fine sarà sua la responsabilità di decidere”.
Nella lettera inviata il 21 aprile del '78 agli “uomini delle BR”,“ignoti ed implacabili avversari di questo uomo degno ed innocente”, perché restituissero la libertà a Moro, Paolo VI lo definisce “uomo buono ed onesto, amico di studi e fratello di fede..”; e nella preghiera rivolta il 13 maggio al Dio della vita e della morte lo definisce “uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico..”
Si può parlare, anche per Moro – come ha fatto la figlia di De Gasperi per suo padre – di “un uomo solo”? Chi gli è stato a fianco nella fase finale della sua vita politica ricorda, con la tragedia Moro, anche quelle di Vittorio Bachelet, Roberto Ruffilli e Piersanti Mattarella, e di decine di altre vittime innocenti degli anni di piombo. Tuttavia dobbiamo riflettere sulle parole di Scaglia: “Una solitudine che qualcuno ha chiamato superbia, ma che in realtà non è che l'inevitabile isolamento del capo che alla fine non può che affidarsi alla propria intuizione, e scegliere per sé e per gli altri... con coraggio”.
A qualche storico la prudenza e il realismo di Moro sono parsi espressione di una politica rassegnata e rinunciataria; in realtà erano il rifiuto di ogni illusione conservatrice, esprimevano la coerenza e la fermezza di una linea, e insieme la modernità e la capacità di adeguarsi a situazioni diverse, in un mondo caratterizzato da un continuo cambiamento. Moro era convinto che “la storia non può essere fermata. Può sbagliare chi spinge e chi trattiene, ma l'avvenire non appartiene a chi sta fermo”. Questa visione nel Moro politico, seriamente dedito al suo lavoro ma sdegnoso di ogni demagogia, matura gradualmente ed emerge sempre più nitida: dagli anni dell’Assemblea Costituente (1946/48) vissuti intensamente con Dossetti, Lazzati, Fanfani e La Pira, i professorini che hanno scritto la Costituzione di una Repubblica “fondata sul lavoro” e sulla centralità del Parlamento; agli anni della responsabilità di presidente del gruppo parlamentare (1953/'55); alle concrete esperienze di ministro dell'istruzione e degli esteri, dal 1955 al '59, e poi nuovamente negli anni della contestazione giovanile, della violenza di piazza, dello stragismo nero e infine del terrorismo rosso.
Lo stile del politico, il suo modo di intendere il ruolo del leader, si manifestano in modo pieno con la responsabilità di segretario del partito. “Il segretario, espressione di una maggioranza, e rispettoso dei suoi diritti, deve essere il segretario di tutto il partito” poiché, come aveva già affermato De Gasperi, “i democratici cristiani sono tutti necessari”. Aldo Moro è restato sempre fedele alla convinzione che la centralità della DC richiedeva la sua unità. Nell'ultimo discorso, da molti ritenuto il suo testamento spirituale, pronunciato il 28 febbraio del '78 all'assemblea dei senatori e dei deputati democristiani, per convincerli dell'importanza di votare compatti il governo di unità nazionale, emerge questa sua profonda convinzione.
Tuttavia la ricerca dell'unità e l'importanza assegnata al dialogo, non nascondevano la disponibilità a qualunque compromesso, e questa verità è apparsa chiara quando si è posta la questione dell'apertura ai socialisti, che stavano lasciandosi alle spalle l'alleanza con i comunisti e imboccando la via dell'autonomia; ed è diventa anche più chiara nel Congresso democristiano del '69, quando sceglie la strada della minoranza, poiché si è reso conto che si era aperto, in termini non più eludibili, il problema del superamento della DC come perno di tutte le maggioranze di governo, e sta diventando sempre più difficile governare un Paese reso inquieto dalla stessa crescita economica e dalle trasformazioni sociali che la caratterizzano.
Moro ha sintetizzato quella difficile situazione politica con un frase che è restata incompresa: “Di crescita si può morire”. I mutamenti economici e sociali erano così profondi che stavano mettendo a rischio gli stessi assetti istituzionali del Paese. Sono gli anni in cui si radicalizza, anche nel linguaggio dei giornali, la polemica contro la partitocrazia, contro i partiti che occupano le istituzioni, contro la DC, il “partito-stato”.
Questi sono per Moro anni durissimi, poiché si delinea un contrasto di fondo tra una politica caratterizzata dalla ricerca del dialogo con i sindacati e la sinistra, e dalla riflessione sui cambiamenti che stanno caratterizzando la società italiana. Tra cui una involuzione che a Moro appare come la più pericolosa per un partito di ispirazione cristiana: quella di un partito che si identifica con la gestione del potere. Contro questa tentazione Moro pronuncia al congresso appena ricordato “una durissima requisitoria, con parole precise e pesanti, che cadono come sferzate in una sala tesa e gremita. (…) Una denuncia severissima, in apparenza inutile. Una pagina molto triste” ricorda Scaglia, “che forse gli è costata la Presidenza della Repubblica”.
Tuttavia sarà ancora Moro, come leader di una minoranza formata dai suoi amici e dalla sinistra (sociale e politica) del partito, a gestire le scelte degli anni segnati dalla “democrazia difficile” e dalla tormentata navigazione verso una “democrazia compiuta”. Per definire quella situazione, quella crisi della DC (e non solo della DC) Moro ha parlato in quella circostanza di “idee senza forza, contro una forza senza idee”. Moro era stato tra i primi a riflettere sul '68 italiano, sulle inquietudini dei giovani che anticipavano l'autunno caldo del '69; e sarà Moro, incurante delle ironie che in molti casi colpivano le sue parole, a parlare di “convergenze parallele” con i socialisti e di “strategia dell'attenzione” verso i movimenti giovanili e le stesse opposizioni, senza tuttavia sottovalutare i rischi di una transizione caratterizzata dal referendum del '74 sul divorzio e poi dal nuovo corso avviato da Berlinguer. Ormai anche il leader del PCI si era convinto che si era esaurita la “spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre”.
Negli anni del compromesso storico e della solidarietà nazionale, la polemica sulla oscurità dei discorsi di Moro lascia il posto al riconoscimento che le sue riflessioni hanno fatto riscoprire la vera politica, fatta non dalla contesa per il potere, ma dalla ricerca disinteressata del bene comune. Una politica che esprime “la risposta della ragione alle sfide della storia”.
C'è una straordinaria continuità tra ciò che Moro dice in questa tormentata fase della politica italiana, e ciò che ha scritto sulla rivista “Studium” quarant'anni prima: “Bisogna che la politica si fermi in tempo (...) riconoscendo i suoi limiti”, poiché “ la politica non è tutto, non è tutta la vita”. Una politica, quella di Moro, che non concepisce la legittimità di una decisione se non è fondata sul consenso, una politica che non è disposta a pagare la popolarità con la rinuncia alla coerenza, una politica di moralità, di serietà e di coraggio che sono le radici di una visione democratica incardinata sulla Costituzione repubblicana.
Sono degli anni insanguinati dal terrorismo, le parole che Moro ha rivolto a tutti gli italiani: “Questo Paese non si salverà, e la stagione dei diritti si rivelerà effimera, se non sorgerà un nuovo senso del dovere.” |