Stampa questo articolo
 
Conservatori e progressisti nel mondo che cambia
 
di Giuseppe Ladetto
 

Ho, in altro articolo, prospettato la necessità di rivedere il concetto di progresso poiché la realtà odierna a cui ci ha condotti tradisce la promessa di emancipazione dei Lumi da cui è nato, mentre la crescita della libertà individuale, che vi era connessa, è smentita dalla sottomissione della società alla dittatura dei mercati finanziari e alla mano invisibile dell’economia, nonché al dominio della tecnoscienza.
Sull’altro fronte, quello del conservatorismo, le cose non vanno meglio. In origine, l’oggetto della conservazione era l’Ancien Régime con i suoi numi tutelari (la trascendenza, la tradizione e la rivelazione). Con il trascorrere del tempo, i suoi contenuti si sono condensati nel trinomio Dio, Patria, Famiglia. Tuttavia accanto a questi riferimenti è andato prendendo piede il liberismo nella sfera economica. In nome della libertà individuale, viene respinta ogni iniziativa dello Stato, sempre avvertita come ingerenza nella vita privata, mentre si affida alla sola iniziativa imprenditoriale il compito di fare crescere la ricchezza, e al mercato quello di dare risposte ai bisogni della gente.
Per gli odierni conservatori, il capitalismo è il motore dello sviluppo da cui discende la qualità della vita e al quale non vanno posti ostacoli. Il divario di ricchezza che ne deriva è ritenuto la giusta conseguenza dell’impegno e delle capacità delle persone.
Questa concezione liberista è oggi condivisa da numerose forze politiche fra le quali molte respingono ogni idea di conservazione. E non a torto, perché il capitalismo è il principale motore del cambiamento. Ma per i conservatori, mi chiedo, come si concilia questa visione liberista con il trinomio Dio, Patria e Famiglia?

Il turbocapitalismo, la versione ultima del capitalismo, è la principale causa di una accelerata trasformazione del mondo che si accompagna non solo alla distruzione delle strutture economiche non in grado di tenerne il passo, ma altresì di ogni tradizione, di ogni cultura, di ogni legame di appartenenza. Il capitalismo aveva bisogno di superare i limiti, per lui soffocanti, degli Stati nazionali, e ha promosso un’economia globalizzata che sta cancellando, prima in ambito economico, poi culturale ed infine politico, la stessa idea di nazione.
E che cos’è una Patria senza la nazione?
Il liberismo, imperniato su un individualismo che non accetta vincoli in nessun ambito, richiede di conseguenza che anche i legami familiari siano indeboliti, diventino transitori e facilmente superabili. Così le nuove famiglie, aperte, adattabili alle mutevoli situazioni dettate da percorsi di vita all’insegna della precarietà e di esigenze contingenti, poco hanno a che vedere con la Famiglia (scritta appunto con la maiuscola) a cui si richiama il conservatorismo. E infine il processo di secolarizzazione, già in atto da molto tempo, ha subìto una forte accelerazione a causa delle profonde modificazioni sociali prodotte dallo sviluppo capitalistico, e per il connesso affermarsi di un individualismo orientato al consumo materiale e teso alla ricerca del semplice piacere, un individualismo che ha messo in disparte ogni interesse religioso e perfino spirituale.
Fra i conservatori, ci sono coloro (come, negli Stati Uniti, i tea party e gli evangelici repubblicani) che non sembrano proprio rendersi conto che i dettami liberisti, e il connesso turbocapitalismo, sono incompatibili con la difesa di quei valori di stampo conservatore di cui si dichiarano sostenitori. Invece, in seno alla famiglia conservatrice europea, alcuni (vedi ad esempio i conservatori britannici), passo dopo passo, lasciano spazio a idee nuove e mettono in campo proposte di carattere permissivo del tutto contraddittorie rispetto ai tradizionali obiettivi. “Conservatorismo al passo con i tempi” viene definito, ma c’è da chiedersi che cosa mai esso voglia o possa conservare: forse solo i rapporti di potere sui quali si sostengono i ceti abbienti.

Sull’altro fronte (quello progressista), è in atto un parallelo mutamento.
Il capitalismo ha assicurato e assicura crescita economica e produzione di ricchezza più efficacemente degli storici esperimenti socialisti. I progressisti ne prendono atto, non lo mettono più in discussione, riservando a sé il compito di garantire una equa ripartizione della ricchezza prodotta. Almeno questa è l’intenzione. Poi si devono misurare con la realtà della economia globalizzata. E qui sono costretti a riconoscere che i criteri di ripartizione della ricchezza prodotta (livelli salariali, tutela dei lavoratori, orari lavorativi, destinazione dei capitali alla spesa sociale, ecc.), così come l’attuazione di politiche ambientali, interferiscono con le esigenze produttive delle imprese in un mondo all’insegna di una spietata concorrenza, che mette in ginocchio chiunque resti indietro. Così l’equa ripartizione della ricchezza prodotta (come capita per il rispetto dell’ambiente) deve essere posposta e sacrificata rispetto a quanto richiesto dalla crescita produttiva e dallo sviluppo.
Caso esemplare è quello del tempo dedicato al lavoro: in passato (precedentemente alla globalizzazione), la crescita della produttività aveva consentito la progressiva riduzione dell’orario lavorativo. Oggi non più, perché ogni incremento di produttività è assorbito dalla necessità di contenere i costi per competere con i Paesi emergenti. Il risultato è che le politiche economiche a cui approdano i progressisti non sono poi molto diverse da quelle dei sedicenti conservatori. Chi, come talune sinistre politiche e sindacali, invoca misure più incisive a favore dei lavoratori, senza però mettere in discussione la globalizzazione, si estromette dal gioco facendo un discorso velleitario, fuori dalla realtà: penso a quei sindacati francesi che chiedono le 32 ore settimanali, malgrado le 35 ore vigenti si rivelino già difficilmente sostenibili per il sistema produttivo del Paese.

Di conseguenza, conservatori e progressisti appaiono sempre meno distanti.
Per marcare una distinzione, il fronte progressista si concentra nella difesa dei “diritti”, fatti passare per uno sviluppo dell’etica socialista, e in tal modo porta ulteriore alimento alle logiche individualistiche. Ma è difficile esaltare nella vita privata il primato di ogni scelta tesa alla realizzazione di se stessi, e nel contempo proporre politiche sociali che richiedono impegno e solidarietà nei confronti dei più deboli, di chi è in difficoltà o semplicemente di chi ci sta accanto (membri della famiglia, colleghi di lavoro, concittadini ecc.). Il progresso, come oggi è inteso, abbandonati gli obiettivi di superamento del capitalismo e di eguaglianza, viene identificato con l’affrancamento da qualunque forma di appartenenza e di identità (compresa quella sessuale) a favore di una società e soprattutto di un mercato senza frontiere.

Venendo a casa nostra, rilevo che, da quando si è avuta la svolta bipolare, la più parte dei commentatori politici ha costantemente ribadito la necessità di dare corpo, anche in Italia, a una “destra moderna”, liberale, in linea con quelle dei Paesi occidentali, la sola che possa garantire una corretta alternanza fra progressisti e conservatori, quasi intesi come due strumenti indispensabili per guidare la complessa macchina dello Stato moderno su un cammino comunque predeterminato.
Oggi, è comprensibile lo sgomento che ha colto tutti coloro che condividono questa interpretazione della democrazia dovendo constatare che in Europa, e ora anche negli Stati Uniti, un tale modello è entrato in crisi: si affacciano alla ribalta movimenti e partiti nuovi, figure non in linea con l’assetto tradizionale; soprattutto sembra esserci la fuga del ceto medio (sempre più arrabbiato per il suo costante declino) dal centro verso quelle formazioni che la più parte dei mezzi di informazione definisce estreme o fautrici dell’antipolitica.
Liquidare ogni fenomeno nuovo con una semplice etichetta negativa non è segno di intelligenza politica; denota piuttosto una forma di paura dell’élite, talora di panico, di fronte a qualche cosa che essa non comprende e che minaccia le posizioni acquisite sulle quali si era tranquillamente adagiata.
Non entro in merito alla natura e alle caratteristiche dei nuovi protagonisti, poiché non ho gli strumenti conoscitivi per una tale impresa. Al massimo, posso rilevare che molti di essi hanno avvertito, in qualche misura, che la mondializzazione sta ormai producendo più guasti che vantaggi, e crea, almeno nei Paesi sviluppati, più sinistrati che beneficiati. Davanti a questo scenario, i nuovi soggetti entrati in campo si rendono conto che occorre mutare rotta, ma, al momento, non sanno bene che cammino intraprendere, ciò che li porta a prospettare soluzioni non sempre praticabili, o semplicistiche, o dagli esiti imprevedibili.
Tuttavia non sono i “fautori dell’antipolitica” a mettere in crisi il sistema di potere bipolare: è questo che si sta sfaldando. È più che lecito preoccuparsene perché gli esiti potrebbero essere molteplici, e di questi alcuni avere caratteristiche negative.
Ma non è stando fermi, difendendo uno status quo indifendibile, che si evita il peggio.
Mi limito a dire che bisognerebbe cercare di capire lo scenario che si sta aprendo di fronte a noi. Certamente allo scopo, non serve guardare indietro, rimanendo ancorati ad una dialettica destra-sinistra incentrata sulla contrapposizione fra un neoliberismo in affanno, poiché non viene a capo della crisi ma anzi la aggrava, e un keynesismo pasticciato e comunque fuori tempo.
Sosteneva questa tesi, qualche tempo fa su “La Stampa”, Luigi La Spina. Secondo l’editorialista, la globalizzazione ha spaccato la società fra chi ne esce perdente o sinistrato e chi ne trae vantaggio o riesce a galleggiare in essa. In questa situazione, aggiungeva La Spina, a sinistra si continua ad immaginare che la soluzione dei problemi consista nella ricetta socialdemocratica o laburista, quando questa non ha più una base sociale di riferimento ed è in piena crisi anche nei Paesi scandinavi di fronte a processi migratori incontrollati e a politiche finanziarie imposte dal grande capitale; a destra, non si sa far altro che invocare la ricomposizione di uno schieramento moderato quando il ceto medio, in piena crisi, è spinto verso le componenti più radicali dello schieramento politico.
Mi pare che, in tutto l’Occidente, l’astensionismo e la mobilità elettorale siano segnali di una domanda politica che non trova più alcuna offerta adeguata alle necessità concrete, che sia convincente e capace di soddisfarle. Ci troviamo immersi in una crisi strutturale che coinvolge il modo di produrre e di vivere.
I partiti con una storia alle spalle sapranno comprendere tutto ciò, rinnovandosi e battendo nuove strade? Me lo auguro. Tuttavia il quadro politico è comunque destinato a grandi trasformazioni che vedranno nascere nuovi schieramenti con identità e criteri dirimenti non riconducibili a quelli tradizionali.


Carlo Baviera - 2016-09-13
Si conferma che è necessario un profondo cambiamento delle politiche, basate su una visione totalmente diversa dal passato, che ponga coloro che si definiscono riformisti, popolari, solidali, ecc. dalla parte dei deboli (popoli, ambiente, continenti o Regioni del Mondo sfruttati dalle guerre e nelle materie prime, ceti che sono emarginati sottocupati o senza lavoro, ...). Non è più il sistema economico o istituzionale in quanto tale che deve concentrare le preoccupazioni, ma una profonda revisione delle scelte di fondo che devono mettere le persone e gli organismi naturali al centro. Il lavoro (tendenzialmente) per tutti e un reddito possibile per tutti, l'istuzione e la sanità gratuite, il dovere e la responsabilità di contribuire al progresso generale con l'impegno e il servizio comunitario: cose da promuovere, garantire e chiedere a tutti. E soprattutto una intesa internazionale per bloccare, contrastare, controllare le "furbate" e l'illegalità delle multinazionali, della finanza, dell'economia senza regole.