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Il referendum e i cattolici democratici
 
di Giorgio Merlo
 

Il dibattito politico, culturale e giuridico sul prossimo referendum costituzionale è sempre più fitto e non mancano contributi che, seppur parzialmente, contribuiscono a ridare comunque qualità e spessore alla stessa politica nel nostro Paese. Del resto, almeno quando si cambiano 46 articoli della Costituzione repubblicana, il confronto non può ridursi solo alla tifoseria – come purtroppo avviene sempre più spesso in quasi tutti i partiti italiani – da un lato o alla semplificazione della rete dall'altro. È vero che la statura della classe politica contemporanea non è neanche lontanamente paragonabile a quella della Costituente e neanche, purtroppo, a quella della Prima Repubblica, ma è pur vero che su questo tema ci si attende adesso un colpo d'ala. Cioè un soprassalto di orgoglio fatto di cultura politica e di approfondimento sui contenuti.
Al di là e al di fuori dei destini personali e di potere di singoli esponenti politici.
Ed è proprio su questo versante che dobbiamo registrare, purtroppo, la sostanziale assenza dei cattolici dal dibattito su questa massiccia e profonda riforma della nostra Costituzione. O meglio, per essere più chiaro, del "pensiero" dei cattolici democratici.
Lo ricordo perché in tutti gli snodi decisivi della nostra democrazia, l'apporto del pensiero cattolico democratico è sempre stato incisivo e determinante. Dalla Costituente in poi, i cattolici democratici non hanno mai fatto mancare la propria voce frutto di una cultura politica che resta costitutiva per la stessa crescita e per il consolidamento della nostra democrazia. Come ovvio, non mi riferisco ai singoli cattolici ma al pensiero e alla cultura cattolico democratica che proprio in questo frangente, carico di importanza e di significato, brilla per la sua latitanza.
Ora, è pur vero che la profonda trasformazione che ha investito i partiti, tutti i partiti, lascia poco spazio alla riflessione politica e all'approfondimento culturale. Del resto, la conseguenza dei partiti "personali" o dei partiti "del leader" è molto semplice: e cioè, partiti che ripetono il verbo del leader e che rinunciano, di fatto, a qualsiasi autonomia di giudizio. È persino scontato che le tradizioni culturali, anche le più nobili, vengano sacrificate sull'altare di questa presunta modernità e qualsiasi dissenso dal "capo" venga interpretato come un tentativo di mettere in discussione ciò che quel partito ha deciso. Non c'é da stupirsi, quindi, che anche nel PD la tradizione cattolico democratica venga ricordata per aver dato i natali al partito nel 2007, insieme ad altre tradizioni culturali si intende, e poco di più.
Ora, c'é una sola domanda da porsi. Almeno per coloro che non intendono la politica come una sorta di delega in bianco al "capo" da un lato o come un maldestro tentativo di modernizzare il sistema rimuovendo le culture politiche dall'altro. Nel caso specifico quella cattolico democratica.
E cioè, dobbiamo rassegnarci al tramonto della cultura politica per poter esercitare attività politica nel panorama pubblico del nostro Paese? E anche di fronte a una modifica sostanziosa della legge fondamentale dello Stato, la Costituzione, deve valere il silenzio-assenso come regola aurea di comportamento?
È inutile che qualcuno, come ad esempio il ministro Del Rio, citi addirittura Giuseppe Dossetti come anticipatore di questa riforma per giustificare in corner l'ancoraggio a un pensiero politico. Rischiano di essere uscite patetiche se non grottesche.
Semmai, e al contrario, va ripreso uno "stile", una "prassi", dove la modernità non coincida con la cancellazione del passato e non venga salutato come cambiamento la rimozione delle culture politiche.
E questo dovrebbe valere per tutti. A cominciare dalla cultura cattolico democratica.


Alberto Pichi - 2016-09-12
Sono cattolico e iscritto al PD. Ritengo che lo specifico della cultura cattolica democratica abbia poco a che fare con l'attuale dibattito sulla riforma costituzionale. Come ben spiega Fusaro nel suo saggio, la revisione in corso riguarda la parte "ordinamentale" della Costituzione, nella quale sono in gioco visioni legittimamente differenti dell'ordinamento dello stato, ben poco derivabili, però, dalla lettura del Vangelo (che dovrebbe essere il nostro specifico). Ciò che ci chiama in causa, per le radici delle nostre motivazioni di militanza politica, dovrebbe però essere lo stile e l'onestà delle scelte: possiamo avere simpatia o antipatia per Renzi, ma non usare l'occasione del referendum per manifestare questi sentimenti e, tanto meno, per anticipare scelte congressuali in merito alla conduzione del partito.
Aldo Cantoni - 2016-09-10
Condivido l' articolo di Giorgio Merlo, ma mi preoccupa lo stile delle reazioni a tutti i tentativi di approfondimento della discussione. Il tono è in genere quello stizzito di chi è infastidito mentre avrebbe ben altro a cui pensare....A ben vedere era così anche una volta quando si cercava di introdurre una riflessione di tipo politico. Poi sono stati colpiti i programmi, giudicati elettoralmente inutili. Poi è venuto il bipolarismo; ed ora la grande "semplificazione"cioè il pensiero unico. La crisi è nella cultura popolare e, naturalmente, vi sono in ogni ambito i poteri che se ne approfittano. Non è un caso che anche i sostenitori del NO non si preoccupino minimamente di argomentare e, tranne rare eccezioni, dicano di votare NO per mandare a casa Renzi. E che ci azzecca direbbe un tale famoso qualche anno addietro.
Dino Ambrosio - 2016-09-09
Ma insomma, da anni si dice che c’è la necessità di fare le riforme, siamo il paese che ha più parlamentari e meglio pagati dell’Unione Europea e forse del mondo, tutti erano d’accordo e l’anno votata fin quando non si è visto che la riforma poteva andare in porto. Ora diciamo che è la riforma “del capo”? Non mi sembra proprio una tesi sostenibile.