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Economia a segno meno
 
di Rodolfo Buat
 

In Italia la battuta d’arresto del PIL del secondo trimestre comunicata dall’Istat (riporto i dati del Sole 24 Ore) induce a pensieri tristi. Anche perché il dato sulla mancata crescita arriva a pochi giorni dai dati negativi della produzione industriale (-0,4% a giugno su maggio e -1% sull’anno).
Sembra che la variazione zero sia la sintesi di un aumento del valore aggiunto nei comparti dell’agricoltura e dei servizi e di una diminuzione in quello dell’industria. Dal lato della domanda c’è un lieve contributo negativo della componente nazionale, compensato da un apporto positivo della componente estera netta. Per trovare un trimestre piatto bisogna risalire al secondo del 2007, mentre il secondo e terzo trimestre del 2014 avevano fatto segnare un -0,1%. Un significativo salto all’indietro quindi.
Alla luce dei dati di ieri la variazione acquisita del PIL è pari allo 0,6%, un dato che coincide con la crescita del prodotto interno in caso di invarianza negli ultimi due trimestri dell’anno. La stima del Governo contenuta nel DEF dello scorso aprile indica una crescita tendenziale per il 2016 dell’1,2%. Stiamo viaggiando a metà delle stime, mentre, secondo le previsioni diffuse il 29 luglio scorso, il PIL dei Paesi dell’area Euro è aumentato dello 0,3% rispetto al trimestre precedente e dell’1,6% nel confronto con lo stesso trimestre del 2015.
Certamente il rallentamento globale dell’economia influenza l’andamento non positivo della nostra economia, ma forse la sua influenza è sovrastimata. Pur in frenata dello 0,3% l’economia cinese, ad esempio, dovrebbe comunque crescere nel 2016 del 6,6%.
In realtà è la nostra industria che fatica a uscire dalla crisi. Gli stessi dati sulla cassa integrazione, pur mostrando nel complesso un calo del 7,5%, evidenziano un incremento della sola cassa integrazione straordinaria del 9,6% che nel settore dell’industria sale sino al 14,7%.
Qualcuno vede in questi dati il segno di una positiva fase di ristrutturazione delle industrie, che riducono i costi per prepararsi al rilancio. Si vedrà, ma intanto soffriamo proprio là dove il nostro Paese ha da sempre il suo punto di forza, e cioè il settore manifatturiero.
Sarebbe utile non sottovalutare questi dati, soprattutto dopo lo sforzo fatto dal Governo nel favorire il settore industriale sia agendo sulla leva fiscale, sia introducendo una legislazione sul lavoro più favorevole ai datori di lavoro. Il tutto sullo sfondo degli interventi della Banca centrale europea sul fronte della liquidità. È evidente che nonostante gli interventi fatti l’iniziativa economica rimane rigida.
La mancata crescita non potrà che avere conseguenze sul piano del debito pubblico, obbligando a nuove manovre sia dal lato della spesa sia dal lato delle entrate, con il rischio di rafforzare la tendenza deflattiva in atto. La questione sociale, già pesante, rischia di esplodere.
L’ultima promessa è quella di qualche intervento pubblico, ma siamo sicuri che sia sufficiente a correggere le dinamiche della crisi? Non sempre i redditi che derivano dagli investimenti in lavori pubblici rimangono in Italia e la catena produttiva in questo settore spesso finisce nel sommerso. Inoltre, esistono opere che producono innovazione e sviluppano competenze, altre meno.
Certo tutto è necessario: ridurre le imposte per le imprese, avere regole più flessibili nell’utilizzo della forza lavoro, spingere la domanda pubblica. Ma è sufficiente?
A oggi dobbiamo dire di no.
Forse c’è qualche componente nell’algoritmo che manca, ad esempio una maggior disponibilità del credito a supporto di nuovi progetti industriali, migliori investimenti nelle fabbriche per l’innovazione di prodotto e per l’incremento delle competenze e della produttività, una più incisiva politica dei redditi, soprattutto di quelli da lavoro, sia sotto il profilo contrattuale che fiscale.
Ma non è una prospettiva neutra dal punto di vista politico.


giuseppe cicoria - 2016-08-29
in italia siamo diventati tutti economisti ma nessuno dà retta alle idee migliori che forse vengono proprio dalla saggezza popolare e dall'analisi delle cose semplici. In un contesto globalizzato è evidente che bisogna investire le risicate risorse a produrre beni e servizi sul territorio nazionale con prodotti italiani e mano d'opera italiana. Per fare ciò senza scostarsi dagli obblighi internazionali sono interessanti i suggerimenti di Buat. Il nostro governo che sicuramente è colmo di intelligenze di primissimo livello finora ha ignorato scientemente queste semplici cose. Ha preferito una politica elemosiniera sperperando inutilmente e gravemente la ricchezza nazionale senza alcun frutto per il benedetto PIL. Tutto ciò sperando nell'aumento del consenso che, naturalmente, è invece calato. Tutti i consigli degli amici della prima ora del Presidente sono stati ignorati. Anzi questi amici sono diventati nemici. Questo signore ora cerca rimedi e parla di investimenti produttivi. Ma dove li prenderà questi soldi? Da altre tasse o dall'aumento del costo dei dei servizi deprimendo ancora di più il livello di spesa dei cittadini? Cercherà di aumentare il deficit di bilancio aggravando il costo del debito pubblico. Si parla con insistenza dell'aumento del costo del denaro che avverrà sicuramente per la necessità di non veder fallire tutte le banche e le Assicurazioni che sono ora tutte alla canna del gas. Cosa succederà quindi al costo del nostro debito? Tutto ciò detto io auspico che si cambi al più presto questo incompetente governo e se ne faccia un altro di salute pubblica al più presto prima che la catastrofe economica e sociale si abbatta definitivamente sulla nostra nazione.
Bunet - 2016-08-23
Due punti: più lavoro dalle opere pubbliche e retribuzioni della P.A. Primo, sono d'accordo con gli investimenti pubblici, ma mi pare non si tenga mai conto del fattore dell'intensità di capitale tecnologico: hanno più impatto soldi investiti laddove si dà più lavoro a persone (più salari), che non lavoro a macchinari. Un esempio: se il canale Cavour venisse costruito oggi, non darebbe lavoro a decine di migliaia di persone come nell'Ottocento, ma a molte, molte di meno e con tante più macchina magari costruite in Italia, ma molto più probabilmente no e quindi senza incidenza sul PIL. Il famoso moltiplicatore si trova oggi più inceppato di ieri. Certo è il progresso e ben vengano le macchine, ma occorre allora pensare che forse in una fase di recessione non si deve investire tout-court, ma farlo pensando al numero di posti di lavoro creati. Meglio la manutenzione di scuole ospedali e edifici pubblici (ad esempio coibentandoli per risparmiare energia e costi fissi) e opere pubbliche più piccole e magari "cittadine" (sottopassi, parcheggi, asfaltature, anche metropolitane e quarta corsia in tangenziale che alleviano l'impatto economico e ambientale della mobilità cittadina) che non grandi infrastrutture che hanno il rischio di essere cattedrali nel deserto. Ci lavora più gente e costano meno. Mi sembra che qualche passo il Governo e Del Rio lo stiano facendo, ma occorre agire con convinzione in quella direzione. Sull'industria, occorre certo abbassare la leva fiscale che non rende conveniente investire in Italia, ma avendo attenzione anche a un altro attore silente della politica italiana: il rinnovo dei contratti della pubblica amministrazione, dove sono impiegati milioni di italiani. Tenere ferme quelle retribuzioni ha forse aiutato i conti dello Stato, ma ha avuto incidenza sul Pil? A questa domanda mi piacerebbe che si provasse a dare risposta. I soldi per farlo? Iniziamo a fare quegli investimenti dando il più possibile lavoro alla gente (addirittura alcuni economisti si sono spinti a parlare di creazione di denaro da dare alla gente per aumentare il Pil! non è il caso, ma è chiaro che il problema c'è). Con un maggior numero di salari privati le imposte cresceranno e si potranno aumentare quelli pubblici.