Sabato 9 luglio la Direzione regionale del PD affronterà l’analisi del risultato elettorale a Torino e in Piemonte. E’ un po’ singolare che questa riflessione si avvii dopo un tempo così lungo. Tuttavia la portata strategica di quanto è avvenuto inciderà profondamente sull’evoluzione della politica italiana, e ne parleremo ancora per un po’. Giustamente quindi gli interventi nel dibattito aperto da “Rinascita Popolare” si sono concentrati sugli aspetti più generali, direi “nazionali”, della vicenda elettorale. Condivido largamente, e non ne parlo. A mio avviso però ci sono aspetti locali che non vanno trascurati, e su cui vorrei fare qualche breve considerazione.
La prima riguarda il rapporto tra il PD e la sinistra torinese. Non so se sono la persona più titolata a sviluppare questa riflessione, ma constato che abbiamo contribuito a dare un’enfasi spropositata alle tattiche di Ghigo e di Vietti puntando attraverso di loro all’elettorato di centro destra, mentre abbiamo lasciato sguarnito l’altro fronte, affidandolo alla volenterosa ma debole iniziativa della lista di Passoni. Il risultato è stato che a Milano la sinistra ha contribuito a far vincere Sala al ballottaggio, mentre a Torino è stata uno dei pilastri della vittoria della Appendino.
Quando faccio questa riflessione non penso alla modesta percentuale ottenuta dalla candidatura di Giorgio Airaudo, ma ad un elettorato diffuso, sensibile alle ragioni ed alla storia della sinistra, che contribuisce a gonfiare le percentuali dell’astensione perché non trova più punti di riferimento e ragioni, magari di “minor male”, per dare un voto al PD. Neanche la forza delle persone (e quella di Fassino sembrava perfetta per cogliere questa fetta di elettorato) servono a motivare la delusione di una fetta di opinione che si sente ormai estraniata dalla propria storia. L’analisi dei risultati elettorali ha giustamente messo in evidenza le performance del Movimento 5 stelle nella periferia della città, e gli schermi della TV ci hanno fatto conoscere l’empatia tra la nuova Sindaca e i ceti popolari. Ma non dobbiamo dimenticare che la vera radice del risultato è nell’astensionismo, e che lì si rifugiano i delusi, prima di decidere un’altra strada. E che lì ci siano tanti delusi “di sinistra” mi pare del tutto evidente.
La seconda considerazione riguarda il giudizio che abbiamo formulato sulla situazione della città, che è stato un giudizio troppo ottimistico ed acritico. Anch’io, proprio su “Rinascita Popolare”, a pochi giorni dal ballottaggio avevo espresso giudizi positivi sul “ventennio del centro sinistra” torinese, e non ho cambiato idea. Dobbiamo però riconoscere che l’enfasi con cui abbiamo difeso il passato, invitandolo a testimone della nostra capacità di amministrare e di governare i processi economici e sociali, non è stato sufficiente in un clima caratterizzato dalla paura del futuro. Forse un approccio più problematico, che leggesse in una chiave di complessità la situazione economica e sociale e trasmettesse messaggi coerenti con questa situazione complessa sarebbe stato compreso meglio. Il tema è significativo non soltanto per capire quello che è successo, ma anche per impostare la strategia del futuro.
La terza considerazione attiene al rapporto tra il PD e il territorio, che ormai è quasi inesistente. Attraverso quali canali il partito parla ad una realtà complessa come quella dei quartieri popolari, se è calata la partecipazione politica al suo interno e si sono interrotti i rapporti con i corpi intermedi e con i tradizionali organismi di rappresentanza e mediazione sociale (associazionismo, sindacati, parrocchie, ecc.) ? Da più di due anni non seguo la realtà torinese, ma se guardo a quella della provincia che oggi vivo quotidianamente vedo una situazione molto difficile: le cose che si muovono nelle società locali si muovono lontane dal PD, e i canali di comunicazione sono deboli e saltuari. Anch’io ho fatto la classica battuta polemica su un partito ridotto a contenitore di cordate personali, e penso che sia veramente così. Ma limitarsi a questa battuta lascia il tempo che trova. Occorre riprendere una riflessione sul partito, che sia ad un tempo politica ed organizzativa. Se la correntizzazione è inevitabile, facciamola diventare una opportunità, rendiamola “politica”, facciamo delle correnti vere, che sono (questa è la mia esperienza di tempi lontani) strumenti del rapporto con la società e non soltanto della conquista del consenso preferenziale. Ma non illudiamoci che questo risolva il problema, senza la costruzione di una dimensione associativa che riconosca una motivazione ideale, una cultura condivisa, una base programmatica comune. L’illusione di risolvere tutto con la forza carismatica di un leader si è rivelata sbagliata. |